Sull’Agenda Draghi e sulle priorità date dai pilastri del Pnrr, oltre che sulle riforme necessarie a favorirne l’attuazione, il mondo politico italiano sembra convergere naturalmente, in modo quasi scontato, vista la bontà dei fini.
Finalmente – e non per diretto merito dei partiti principali della maggioranza – a guidare il Paese abbiamo un presidente del Consiglio all’altezza del ruolo, capace di calare concretamente nella realtà nazionale gli obiettivi di politica economica dell’Unione e unanimemente riconosciuto in sede europea quale interlocutore autorevole e credibile.
Ed è soprattutto di credibilità che il nostro Paese ha bisogno. Ma guardando in prospettiva non si può certo pensare che l’accountability della nostra classe dirigente possa discendere soltanto, e comunque non più che per un certo periodo, dall’autorevolezza e dalle capacità dell’attuale premier.
Molto dipenderà dal consolidamento dei processi di riforma che questo governo riuscirà ad avviare, da come verranno impiegate le risorse e gestiti i progetti programmati nel Pnrr e soprattutto da quanto i primi risultati in itinere saranno in grado di lasciar intravedere un processo di ripresa socio-economico.
Tutto questo implicitamente discenderà anche dalla capacità, per quanti si definiscono riformisti, di prendere atto che il sistema della rappresentanza è imprigionato nello schema bipopulista e che ci troviamo di fronte a una generalizzata crisi dei partiti e della politica, che va affrontata come un problema a sé e che rappresenta di per sé un fattore critico di instabilità e una vera condizione di “rischio Paese”.
Lo dimostrano i tanti cambi delle compagini di governo della legislatura – tutte segnate dall’alleanza di partiti dichiaratamente non solo avversari, ma nemici – e le effimere architetture parlamentari che hanno sostenuto i diversi esecutivi. Una precarietà permanente e una condizione di sostanziale indistinzione politica, che poco giovano a un processo duraturo di riforme strutturali e di sviluppo socio-economico.
Sembra quindi irrinunciabile immaginare, oltre alle riforme urgenti che ci vengono indicate dall’Europa, come la riforma della Giustizia e quella della PA, una riforma del sistema politico nel suo complesso. Una riforma, che più delle altre, non può essere decretata per legge, ma implica una riconversione e un’auto-riforma dei soggetti politici.
Una liberal-democrazia non può che fondarsi sui pilastri dello Stato di diritto, dell’efficienza burocratica e di un sistema della rappresentanza mediato da organizzazioni democratiche che pratichino la democrazia al proprio interno e che legittimino la propria azione sulla propria capacità di rappresentare istanze e interessi specifici e di governarli secondo un criterio di interesse generale. Non già sulla ricerca del favore e del gradimento del “pubblico”, che non è affatto una misura del consenso politico in senso stretto democratico.
Se popperianamente la democrazia è un metodo che, come quello scientifico, serve a selezionare e verificare la validità di una teoria e la congruenza tra fini e mezzi politici, il processo democratico degenera – con esiti potenzialmente totalitari e comunque sempre inefficienti – quando cessa di adempiere a questa funzione sperimentale e diventa un mero spettacolo, il cui successo o insuccesso è privo di qualunque relazione con il successo o l’insuccesso delle politiche realizzate.
Questa deriva in Italia ha avuto esiti paradossali e quasi incredibili, visto che proprio le politiche dagli esiti più rovinosi – pensiamo a reddito di cittadinanza e quota 100 – sono quelle che hanno fatto vincere le elezioni a M5S e Lega. È una deriva che nasce, oltre che dagli effetti “demopatici” del sistema della comunicazione globale, dall’abdicazione dei partiti al loro ruolo democratico e dalla loro trasformazione in imprese di spettacolo politico post-democratico. Perché è proprio l’abidcazione dei partiti a trasformare gli elettori da attori politici in pubblico plaudente o fischiante e in questuanti e percettori di immediate rendite simboliche e materiali. Senza un orizzonte di senso attorno a cui organizzare il dibattito politico, tutte le reazioni diventano insensate, volatili e intercambiabili.
Il livello di fluidità e fungibilità delle formazioni post democratiche è tale per cui tutto è possibile: vecchi riformisti che pur di mantenere una posizione di potere digeriscono di buon grado iniziative populiste come il taglio dei parlamentari, storici giustizialisti che improvvisamente diventano paladini del garantismo, mentre i più spudorati detrattori dell’euro si riscoprono improvvisamente convinti europeisti all’ombra del Governo Draghi.
In questo teatro del trasformismo post-ideologico non meraviglia che ci sia una crisi della rappresentanza e un crollo della credibilità della classe politica. Per recuperare credibilità i partiti devono reinventare una propria vocazione politica e ideologica, quella che negli ultimi anni hanno progressivamente perso trasformandosi in macchine di potere fini a se stesse, dedite soprattutto all’occupazione degli apparati politico-amministrativi.
Il declino della democrazia dei partiti ha favorito una tendenza che Jürgen Habermas aveva segnalato tra i «rischi di sistema» derivanti dal progressivo appannamento della dimensione ideologica dei partiti, ovvero l’emersione di una «sfera pubblica depoliticizzata di un pubblico mediatizzato, la cui acclamazione esplicita o la cui tacita tolleranza è prodotta “dall’alto” grazie a una pubblicità manipolativa o dimostrativa».
È un processo che il sistema dei partiti non solo non ha ostacolato, ma ha direttamente avallato, perché una volta destrutturato il tradizionale radicamento socio-territoriale non restava loro altra soluzione che «ottenere la disponibilità plebiscitaria del pubblico mediatizzato». Nei fatti la mediatizzazione della politica, anziché arginare, ha ulteriormente aggravato la crisi dei partiti accentuandone la spirale leaderistica e la ricerca ostinata di consenso plebiscitario.
Frantumare l’ordine della mediazione non solo non è servito a migliorare la governabilità – la retorica del capo non è stata in grado di compensare il vuoto prodotto dalla crisi dei partiti – ma ha prodotto gravi danni al tessuto democratico del Paese. Questa crisi della democrazia, che ha evidenti dimensioni globali, in Italia ha raggiunto livelli assoluti, al punto che al momento non sembra esistere un solo partito in grado di sottrarsi in modo “autosufficiente” a questo meccanismo.
La crisi della democrazia italiana colpisce al cuore il funzionamento del sistema liberale-costituzionale e non a caso questo partito che non c’è – che sarebbe vano immaginare che Draghi possa costituire, ma di cui la sua figura descrive un perimetro politico-morale – è quello in senso proprio liberale.
Per cui pensare oggi al partito che non c’è non può che farci immaginare un soggetto politico elettorale che sia chiaramente e decisamente autonomo e alternativo al centro-destra e al centro-sinistra, che abbia un’organizzazione democraticamente strutturata attorno a precise istanze ideologiche liberali, europeiste, atlantiste, e che pertanto si riconosca naturalmente nella famiglia dei liberal-democratici europei (ALDE).
E questo non avverrà con appelli all’unità più o meno inclusivi o con accrocchi elettorali opportunamente costruiti per arginare i limiti di una legge elettorale inadeguata, ma solo con un chiaro disegno di costruzione, che passi attraverso una fase di fondazione di un soggetto politico capace di durare, un partito che abbia l’ambizione di avere un orizzonte temporale più lungo di un’elezione. Per farlo ci vorrebbero dei leader coraggiosi e altrettanto ambiziosi, talmente coraggiosi da superare se stessi e talmente ambiziosi da non pensare – come diceva Alcide De Gasperi degli statisti – alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni.