Destinazione 2023Letta e la vocazione sconfittista del Pd (nonostante il probabile successo nelle città)

Da mesi il Partito democratico evoca la vittoria del centrodestra alle elezioni generali, ma fa poco per evitarla. Riuscirà a confrontarsi senza preclusioni con tutte le forze politiche liberalriformiste pronte a battersi contro i populisti?

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Ve lo immaginate Mike Tyson alla vigilia di un incontro dire che certamente vincerà l’avversario? O una casa automobilistica annunciare che le macchine del concorrente vanno meglio? Non accade, eh? Però al Partito democratico (che per carità non è né un pugile né un’azienda) capita di annunciare tutti i santi giorni che alle elezioni politiche la vittoria della destra. È un caso unico nella storia. Sondaggi alla mano, ne ha fatto una verità. Un’ipotesi diventa una realtà. 

Ed è una premessa per esempio riguardo alla tattica sul Quirinale che fa dire a parecchi esponenti dem che Mario Draghi sarebbe un ottimo argine a un governo orbaniano, che è un concetto rivelatore della convinzione di perdere oltre che offensivo verso Draghi e in generale verso la figura del presidente della Repubblica, che non è un argine ma il principale regolatore e arbitro della vita istituzionale del Paese (a meno che non si voglia considerare la destra italiana come eversiva ma allora si cambia completamente lo spartito). 

Enrico Letta, che domani chiude la Festa nazionale dell’Unità, ha chiesto una strana moratoria sul tema Quirinale aperto proprio da lui quando disse che Draghi deve restare a palazzo Chigi «almeno fino al 2023». Si può benissimo evitare di entrare nel giochetto del toto-nomi mantenendo però questo punto fermo perché sarebbe un elemento di chiarezza: Letta ribadirà ciò che ha detto o ha cambiato idea?

Lo schema mentale sconfittista del Pd ha ovviamente dalla sua non solo i sondaggi negativi ma solide ragioni politiche che ineriscono alla debolezza del centrosinistra, come diremo dopo. Tuttavia il punto critico è che questi dati vengono registrati e assunti meccanicamente invece di pensare a come sovvertirli. In parole povere: se la legge elettorale non cambia (ma anche qui non si capisce quale sia la proposta del partito di Letta – lo chiarirà a Bologna? – e soprattutto cosa intenda fare per smuovere le acque per il superamento del Rosatellum), poiché nessuno ha lavorato per costruire un’alleanza competitiva contro la destra – che da 30 anni è sempre la Casa delle libertà con altri nomi – la sconfitta è molto probabile in tantissimi collegi uninominali.

Su questo piano è evidente che sia stato catastrofico andare per due anni appresso a un Movimento 5 stelle che si sta dissolvendo, e alzare un muro verso il restante mondo, qui è il cuore del «fallimento della segreteria Zingaretti», come l’ha chiamato senza giri di parole Matteo Orfini. 

Poi, dall’elezione di Letta a marzo, non è praticamente successo niente, salvo un giro di incontri appena diventato segretario piuttosto avaro di notizie. Mentre i grillini hanno costruito le condizioni per un loro naufragio scritto nella Storia, chiamando tra l’altro al timone un Giuseppe Conte che fin qui ha brillato soprattutto per l’apertura ai talebani distensivi – poi si è visto il capo della Banca centrale con il kalashnikov sul tavolo – e che già si dice stanco del ruolo, il Pd sta provando un po’ a rafforzare se stesso, il che è certamente indispensabile dopo il biennio zingarettiano, ma i risultati non sono obiettivamente granché.

I temi identitari non hanno fatto passi avanti, né lo Ius soli, né la tassazione per la dote ai giovani, né il voto ai sedicenni, né sulla legge Zan, né – finora – sui temi del lavoro e della protezione sociale. Fortuna che alle amministrative c’è una destra impresentabile, fattore decisivo per la probabile affermazione dei sindaci di centrosinistra.

Ma la verità è che in questi mesi non si è sviluppata alcuna politica né verso la sinistra-sinistra, anche perché di fatto essa è al comando del Nazareno, né verso i liberalriformisti – colpa anche di questi ultimi se nulla si muove, beninteso – cioè verso tutto un elettorato centrista ma riformatore che non sarà maggioritario ma che costruisce quell’utile marginale che magari ti fa vincere, anche perché sottrae consensi alla destra (ci sta provando Carlo Calenda a Roma).

E il Pd nemmeno si è compiutamente draghizzato, facendo dell’azione del presidente del Consiglio l’orizzonte della propria avventura provando a fare del Pd la forma politica dell’agenda dell’attuale presidente del Consiglio, la sua principale infrastruttura popolare: in fondo sarebbe l’unica carta forte da giocare al momento del voto.

Le elezioni saranno molto probabilmente nel 2023, se questo non è un Paese di matti. C’è dunque anno e mezzo di tempo per cambiare rotta: il Pd intende aprire, mentre si svolgono le Agorà democratiche, una fase di confronto con tutte quelle forze politiche, senza preclusioni, pronte a battersi contro la destra in vista di un programma comune? Questa sarebbe una notizia: chissà se Letta la fornirà già a Bologna.

Perché la destra non ha ancora vinto e potrebbe non vincere. Ma dunque, perché questa inerzia, frutto della ineluttabilità della sconfitta? Se si legge Goffredo Bettini tra le righe si sente l’antico riflesso dalemiano per cui l’Italia è un Paese di destra e dunque, alla fine, il destino, salvo trucchetti politicisti, è l’opposizione: c’è sempre la reazione in agguato, i poteri forti, la Confindustria, e altro non resta che compattare le truppe e porle in salvo. Una ritirata. Se questa impressione fosse giusta, sarebbe un guaio, un ritorno indietro di 40 anni. E invece sulla carta le chances per una affermazione elettorale dei riformisti ci sarebbero anche. Il tema è se c’è qualcuno che vuole provare a coglierle.

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