Mutazione radicaleLa crisi della cultura e la lezione sprecata del Covid

Si apre la stagione dei festival mentre assistiamo al crollo intellettuale per lucidità, competenza e in alcuni casi anche nel ridicolo di figure considerate eminenti. Ma ciò che si nota è l’inadeguatezza ad affrontare l’estrema urgenza di eventi che sono stati previsti da molto tempo e la sorpresa di vivere nella società del caldo umido e dei libri o dei film inutili

cambiamento climatico
Pexels

Settembre si sa è da tempo almeno in Italia la stagione dei festival, si parte con quello del cinema di Venezia e si va avanti con quelli letterario filosofici da Sassuolo a Modena, da Mantova e Pordenone e poi un’infinità di altri grandi o piccoli eventi che si sono aggiunti negli anni.

Nonostante il covid, ovvero una pandemia che sta funestando il mondo, questi allegri carrozzoni resistono, ma in un certo modo, malgrado le chiare esigenze economiche e se vogliamo anche professionali di chi vi è coinvolto, non si capisce più bene se per davvero esistano. In altre parole, ci importa veramente ancora del cinema o della letteratura? E se nel caso che davvero dopo un’attenta analisi ci importasse, ma perché mai? 

Si dirà quello che si dice sempre ovvero la cultura: parola mai così tanto usata a sproposito e al contempo utile per risolvere ogni situazione, e ancor più per negarsi all’istante. Ora qui non è il caso di fare provocazioni o polemiche, anche perché gli accorti distinguo sono già stati fatti (e altri se ne potrebbero aggiungere a piacere senza che si guasti il centro della questione), ma il punto dovrebbe essere quanto mai evidente almeno da circa trent’anni. Si pensava che la pandemia in qualche modo aprisse a una qualche possibile riflessione e invece il nulla. Come il nulla, questo sì culturale, che avvolge questi baracconi.

Non può essere un caso se oggi assistiamo al crollo intellettuale per lucidità, competenza e in alcuni casi anche nel ridicolo di figure considerate eminenti. Sacerdoti universitari e pubblicisti a libero servizio che improvvisamente fanno appello contro la retorica dell’urgenza che tutto riduce a controllo quando in verità è semplicemente la loro inadeguatezza ad affrontare non l’urgenza, ma l’estrema urgenza di eventi che sono stati previsti da molto tempo (non era Massimo Cacciari che ripeteva la qualunque da almeno vent’anni?) anche in maniera visionaria da artisti, poeti e registi (la solita gente insomma). 

Migrazioni, pandemie e cambiamento climatico fanno tutte capo a un tema ecologico che mette al centro l’uomo come punto di crisi sostanziale. Certo non basta dire che lo sapevamo già o come cantava Enzo Jannacci: «Se me lo dicevi prima», ma è anche vero che fare finta di niente o sorprendersi che viviamo nella società del controllo, del caldo umido e dei libri o dei film inutili, ricorda molto da vicino il mito dei lemming suicidi. Sì, è un mito, non avviene per davvero, ma noi umani potremmo essere la prima specie a compiere in massa l’estremo gesto. Potremmo fare l’elenco delle opere che ci hanno avvertito di questa crisi da Michelangelo Antonioni a Werner Herzog per non andare a cercare troppo negli archivi o a tutto il Nouveau Roman in letteratura sempre per non andare a cercare l’ultimo poeta pastore abruzzese di turno. 

Si dirà che in fondo sì è vero lo sapevamo già e anche che due balle Antonioni e Alain Robbe-Grillet, la qual replica non è che non abbia una sua valenza, tutt’altro. Tuttavia non possiamo però per l’ennesima volta far finta di niente e fare come si è fatto e come si sta facendo, dicendo che in fondo bisogna raccontare storie nuove, il che per altro oltre che a essere una fesseria è pure antistorico, ma pazienza. Non sindacalizziamo sulla necessità e l’impegno sacro di dover raccontare storie, prendiamola per buona come esigenza esistenziale.  

Quello che non possiamo prendere per buono è che qualcuno sia convinto di poter cantare “I Shall Be Releasedregalando la stessa straziante gioia esistenziale di Bob Dylan. Non dico che non si possa fare meglio o di meglio, ma non si può fare più quella cosa lì precisa che non era cantare una canzone o raccontare una storia, ma esistere. Quell’esistenza non si può più, come non si può più fumare al cinema e nella vita come fumavano Michel Piccoli o Jean-Paul Belmondo. E di conseguenza quali immagini vogliamo offrire (utilizzando il medesimo strumento) quando ancora fatichiamo a contenere la vita e la bellezza assoluta di quelle di Antonioni, Federico Fellini e John Huston (giusto per fare tre nomi distanti). Non si tratta di passatismo, ma di un bagaglio vivo a disposizione di chiunque e che nessuno di noi potrà mai esaurire nemmeno in dieci vite.

Un bagaglio che sarebbe utile portarsi dietro e di cui nutrirsi avidamente e poi certo senza per questo abbandonare quello che presume di esistere oggi, ma lasciandolo ai margini di una vita che non può essere scossa o interpretata da emuli di un’arte minore. E che minore si considera essa stessa avendo rifiutato e sepolto sguardo e intuizioni perché troppo complicate (incredibile a pensarci) a favore di un facile professionismo narrativo.

Non so se il futuro è nella musica elettronica o nelle corse con i sacchi o nelle collezioni di farfalle, ma se la nostra esistenza è chiamata a una mutazione radicale non è pensabile restare a raccontarci delle storie e credendoci pure mentre fuori impazza la tempesta. E non è un caso se i migliori della nostra epoca appaiano come dei Bartleby assenti, incapaci e inconcludenti, ma ripetitivi. Il che sarebbe pure un buon inizio.

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