La differenza tra noi e Luca Morisi è che sui social de Linkiesta non faremo nessuna card truculenta da mozzorecchi augurandoci il suo annientamento politico e civile, malgrado le sue colpe siano gravissime e accertate, anche se non quelle di cui è accusato dalla magistratura veneta e di cui a noi non frega niente, ma la responsabilità di aver ingegnerizzato l’avvelenamento del discorso pubblico italiano.
La differenza tra noi e il Pd è che sappiamo perfettamente che la Bestia di Morisi e di Matteo Salvini non è un’invenzione padana ma è figlia naturale del partito dell’algoritmo della Casaleggio associati, tanto che la coalizione di maoisti digitali ha governato insieme appassionatamente guidata, si fa per dire, dallo spigolatore di Volturara Appula Giuseppe Conte.
La differenza tra l’avvocato del populismo che ieri ha spiegato al Corriere di aver messo a posto Angela Merkel, addirittura con «veemenza» e magari battente bandiera liberiana, e chiunque abbia visto il film Borotalco di Carlo Verdone è che questi ultimi sanno bene che Manuel Fantoni è una caricatura del mitomane medio italiano perfettamente aderente al segnaposto di Casaleggio e di Salvini che si crede davvero il leader fortissimo di tutti i progressisti, dopo esserlo stato dei populisti e dei sovranisti.
La differenza tra la Spd e il Pd è che i socialdemocratici tedeschi sono arrivati primi alle elezioni di domenica non concedendo nulla ai populisti di destra e di sinistra, altro che alleanza strategica e Tomaso Montanari.
La differenza tra una sinistra di governo e una da osteria è che la prima non accusa i concorrenti interni di neoliberismo, qualunque cosa voglia dire questo calco anglosassone che in Italia, poi, è più grottesco che altrove.
La differenza tra Carlo Calenda e i dirigenti del Pd che hanno partecipato allo shitstorm di stampo casaleggian-morisiano di ieri pomeriggio, inventandosi la fake news di un sostegno leghista al leader di Azione, è che Calenda sa che le campagne elettorali hanno senso se si prova a conquistare il consenso di quelli che la volta precedente hanno votato dall’altra parte, altrimenti non ci sarebbe bisogno di fare le elezioni ma basterebbe fare un censimento (e, soprattutto, se avessero ragione loro, la sinistra vetero-dalemiana a vocazione minoritaria non avrebbe alcuna chance di successo).
La differenza tra il leghista Giancarlo Giorgetti e noi è che Linkiesta sa che se Draghi lasciasse anzitempo Palazzo Chigi sarebbe altissimo il rischio di mandare a carte quarantotto l’ultima possibilità di ripresa concessa al nostro paese, quindi meglio non rischiare.
La differenza tra gli avvocati devoti di Conte e noi è che loro preferiscono continuare a scherzare e a sfornare brioche, un po’ come Maria Antonietta un po’ come quel formidabile Bertinotti interpretato da Corrado Guzzanti che alla domanda perché facesse tutto quel gran casino politico rispondeva: «Pevché mi divevto».
La differenza tra i pentiti dell’antipopulismo e noi che non abbiamo cambiato idea sui partiti politici e sulle istituzioni parlamentari è che loro ancora non si rassegnano alla formidabile campagna che ha portato al salvataggio nazionale attraverso la defenestrazione del caro Giuseppi, tanto che adesso argomentano acrobaticamente che sarebbe meglio promuovere Draghi al Quirinale al fine di rimuoverlo da quel Palazzo Chigi dove non avrebbero mai voluto vederlo (perché i liberali non si possono nemmeno immaginare la veemenza con cui il Trisconte battente bandiera Ciampolillo avrebbe disinnescato la Merkel e il resto del mondo).
La differenza con i bipopulisti, al dunque, è la nostra consapevolezza che leghisti, neo ex post fascisti, grillini e i loro volenterosi complici sono indistinguibili e ugualmente pericolosi per lo stato di diritto, a meno di neutralizzarli esercitando un’egemonia politica contro il loro tentativo di demolirlo.
Mario Draghi c’è riuscito, mentre con il piano vaccinale e il piano di ripresa faceva dimenticare all’Europa sia il primo sia il secondo tragicomico Conte. Alternative altrettanto capaci ed efficaci, al momento, non se ne vedono.
Ed è tutta qui la differenza tra Draghi al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi fino a scadenza naturale della legislatura e anche oltre, naturalmente su indicazione democratica dei gruppi parlamentari antipopulisti al prossimo Capo dello Stato nel corso delle consultazioni immediatamente successive alle elezioni politiche del 2023.
Può darsi che questa sia un’ipotesi politica fantasiosa, ma non è del tutto campata in aria perché dopo il referendum del 2020 che ha mutilato il Parlamento, e di conseguenza reso ingovernabili le prossime camere, è stato promesso di apportare dei correttivi alla legge elettorale e l’ipotesi principale di lavoro è stata quella di adottare un sistema di distribuzione dei seggi proporzionale al numero di voti raccolti alle urne.
Nulla è impossibile per chi fa politica, del resto se fosse stato impossibile – come dicevano tutti gli attuali orfani di Conte e non solo loro – oggi Draghi sarebbe a Città della Pieve e non a Palazzo Chigi. Basterebbe, come sempre, fare quel che si deve, poi accada quel che può.