La stagione consapevoleLa fragilità di Morisi, la cancel culture non esiste e altri animali fantastici

È interessante che la curva dei suscettibili sia divisa tra chi dice che i linciaggi dell’internet non esistono e chi recepisce lo spirito del tempo e plasma l’immaginario nelle nuove serie tv. Piccoli, impercettibili segnali di presa di coscienza

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Mi sono inventata tutto. Non esiste niente di ciò di cui vi ho parlato negli ultimi anni. Non esistono i linciaggi dell’internet, non esiste la folla che chiede teste e a volte le ottiene, non esiste la convinzione che sia legittimo pensarla solo in un modo e parlare solo con chi la pensa nel modo giusto, non esiste il feticismo della fragilità.

Quest’ultimo, in particolare, è assente dallo spirito del tempo al punto che Luca Morisi, uno che ha spesso dato prova di non sapere cosa l’elettorato voglia sentirsi dire, ha opposto alle accuse che ieri hanno intrattenuto i suoi detrattori quell’arma ormai convenzionalissima che è la «fragilità esistenziale» (qualunque cosa significhi).

I tic con cui la sinistra ha egemonizzato il dibattito pubblico utilizzati dalla destra per difendersi in caso di pasticci: se l’infanzia difficile vale per voi, vale anche per me. Tuttavia, pur apprezzando il tentativo di Morisi d’inserirsi nel tema del decennio, egli è respinto per mancanza di fedina culturale: puoi essere suscettibile, e usare la tua suscettibilità come copertura esistenziale, solo se sei di quella specie di sinistra che ha a cuore certe buone cause, e non risulta Morisi abbia mai avuto a cuore i transessuali, i migranti, e neppure le vocali neutre.

È altresì interessante che la curva dei suscettibili sia divisa tra irrilevanti, che s’affannano a ripetere come il rosario della moglie del Gattopardo «la cancel culture non esiste», e rilevanti, che recepiscono lo spirito del tempo e plasmano l’immaginario. Insomma: quelli che scrivono le serie televisive. E di cosa parla la più parte delle serie televisive del 2021?

Hacks, che ha vinto alcuni Emmy tra cui quello come miglior sceneggiatura di una serie comica, racconta d’una comica anziana (una sorta di Joan Rivers) che, per non farsi mettere da parte, ingaggia per scriverle battute una giovane autrice. È una storia di divario generazionale, certo, con la giovane che spiega alla vecchia che per una venticinquenne d’oggi mandare foto nuda all’amante è normale. Ma, soprattutto, è la storia d’una che accetta questo ingaggio per disperazione: nessuno la fa più lavorare, ha fatto una battutaccia su Twitter ed è divenuta intoccabile. Sì: quel meccanismo che non esiste.

The Chair, su Netflix, ha tra i personaggi un professore che, mentre spiega il nazismo, prende per il culo il saluto a braccio teso. Basta un cellulare in classe che lo fotografi così ed è subito meme, è subito gif, è subito orrendità postmoderna, ma soprattutto lui è subito nazista: vorremo mica dibatterne, orsù, quando il fermoimmagine fuori contesto è sempre così capace di raccontare tutta la storia. (Prima o poi capiremo che, in un mondo in cui ognuno ha gli strumenti del paparazzo in tasca, fotografare gente non consenziente è un giochino che va regolamentato).

Nella puntata della settimana scorsa della seconda stagione di The Morning Show, su Apple+, arriva Valeria Golino. Il molestatore della prima stagione (che già forse non era proprio molestatore: The Morning Show aveva già cominciato a fare un goffo tentativo di raccontare il MeToo nelle sue contraddittorie sfumature), Steve Carell, si è rifugiato in una villa sul lago di Como. Mentre è a prendere un gelato, arriva una ventenne americana invasata che lo umilia, lo insulta, gli dice che lui non deve permettersi di rovinare con la sua presenza la gelateria (se dici o fai la cosa sbagliata, nell’epoca delle condanne definitive istantanee, non hai più diritto a una carriera, né a una reputazione, e neppure a un crema e cioccolato).

Interviene Valeria Golino, che fa alla ragazza un discorso che potremmo riassumere in «io ero femminista quando tu ancora dovevi nascere». È un concetto sempre oscuro a quelle che pensano di fare la rivoluzione a botte di cancelletti, e alle quali non viene da ridere quando rimproverano alle vegliarde di non aver fatto abbastanza: essendo convinte che il mondo sia immobile, sono certe che tutto quel che c’era alla loro nascita, dal diritto all’aborto al diritto di voto, ci sia sempre stato, per grazia ricevuta, che nessuna si sia dovuta sbattere perché il mondo fosse così com’è oggi.

Quando Natalia Aspesi, mesi fa, fece notare che le ragazze si erano trovate i diritti già conquistati, l’indignazione si levò alta sui social: come osa sottostimare il trauma irrisolto del catcalling (cioè di quelli che ti dicono «abbòna» per strada). Una volta ci si lamentava dei «cinquant’anni di malgoverno democristiano»; poi è arrivata l’eredità del debito pubblico e «ci avete arrubbato il futuro»; adesso le nuove generazioni trasecolano che nessuno abbia pensato al 41 bis per i fischi per strada, il che mi fa pensare che non esistano altri e maggiori problemi irrisolti: evviva.

La Golino, dicevo. Sono pur sempre sceneggiatori americani, e quindi il discorso non suscettibile lo fanno fare a un’italiana, che rhettbutlerianamente ha abbastanza coraggio da fare a meno della reputazione. L’italiana è folkloristica e quindi, quando l’americana le dà del «Mussolini», si mette a cantare Giovinezza. L’amica dell’americana sta riprendendo col cellulare, e non ci vuole un Oscar per la sceneggiatura per capire che nelle prossime puntate il video diventerà virale e la Golino (e forse pure Carell, colpevole d’essere comparsa muta nella scenetta) verranno lapidati dai social.

È tutto giusto, è tutto preciso, è tutto prevedibile: le serie televisive americane hanno ormai da anni una capacità di rielaborare l’attualità in tempi stretti e di fare da elzeviro ai fatti del momento, e la realtà e l’attualità queste sono, in questo autunno del discontento. Manca solo, per rendere perfetta la verosimiglianza, un personaggio che dica che, ma figuriamoci: la cancel culture non esiste.

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