«Se la destra divide il paese, dobbiamo essere consapevoli che nello scontro sociale vince chi trova maggiore ascolto presso le componenti più ragionevoli della parte avversa» (Massimo D’Alema, “Una sinistra che parli a tutti”, Italianieuropei n.3, 2002)
Ha fatto molto scalpore, nel Partito democratico, il giudizio positivo di Giancarlo Giorgetti su Carlo Calenda come possibile sindaco di Roma, espresso in una intervista alla Stampa non esente da stranezze (Draghi al Quirinale con la certezza che i poi i soldi verranno buttati via: che senso ha?).
Non è un’indicazione di voto (la Lega è con «Michetti chi?») ma un apprezzamento che comunque ha fatto scattare i dirigenti locali e nazionali contro il leader di Azione, additato come un traditore al soldo del nemico.
Va bene che in campagna elettorale vale tutto ma qui siamo in piena contraddizione con la storia della sinistra italiana e di quel Partito comunista italiano da cui provengono molti strateghi del Nazareno: non c’è bisogno di farla lunga ma da Palmiro Togliatti a Enrico Berlinguer a Massimo D’Alema l’obiettivo di spaccare la destra favorendo l’emersione della sua parte «più ragionevole» è stato costante, un imperativo categorico a cui sono state educate generazioni di militanti e dirigenti, e d’altronde la cosa è facilmente verificabile, esistono enormi biblioteche ove trovarne conferma.
Prendere i voti di una parte della destra è esattamente l’obiettivo che ogni candidato di sinistra deve porsi se vuole vincere – stante l’eterna lettura pessimistica ma non lontana dal vero secondo cui l’Italia è un Paese di destra – e tradizionalmente è considerato bravo quel candidato o quell’esponente capace di parlare a tutti, come recita il pezzo dalemiano sopra riportato, il contrario del “pochi ma buoni” che sembra connotare certi tic nazarenici. È la scoperta dell’acqua calda. L’abc della politica.
E invece, a cinque giorni dal voto di Roma, i dem si sono imbizzarriti (anche le persone più moderate, da Valeria Fedeli ad Alessia Rotta) perché Calenda è stato apprezzato da quel Giorgetti che non solo non è Belzebù ma è l’uomo sul quale puntano molti del Partito democratico come alternativa democratica a Matteo Salvini, è il draghiano della Lega che sta assicurando un appoggio ragionato al governo di cui il Partito democratico fa parte. Invece qui, apriti cielo.
Il sospetto è che il partito di Letta provi una specie di invidia – non sapremmo come altro dire – per il candidato riformista capace, a quanto pare, di intercettare consensi a destra, cioè in quella parte della destra romana che guarda più alle competenze che alle appartenenze, che è esattamente ciò che avrebbe dovuto fare Roberto Gualtieri che pure ha tutte le capacità e la postura tecnica per calamitare consensi moderati e di destra democratica.
Invece la corsa per il Campidoglio sta finendo con Calenda che si affaccia “di là” e con Gualtieri che resta nel suo (presumibilmente ampio) recinto della sinistra un po’ troppo tradizionale, con tutte le incognite del caso.
Solo il nervosismo del rush finale di una lunga ed estenuante campagna elettorale può spiegare questo improvviso arroccamento del Partito democratico che, a meno che non si tratti di pura paura, evidentemente ritiene di dover consolidare il suo campo più che allargarlo, dimenticando che nell’incertezza dei romani si nascondono tante cose tra cui una: la voglia di avere un sindaco che esprima un’idea di concretezza e di fattività, senza eccessive rigidità politiche.
Questa infatti pare anche la forza di Beppe Sala a Milano. Strano che a Roma, la città dove la Politica si nutre di astuzie, incursioni, tatticismi, seduzioni e manovre, non lo capiscano.