Il primo governo della legislatura, come è noto, nacque sul baratto intra-populista di quota 100 e reddito di cittadinanza, cioè sul sostegno grillino alla cosiddetta abolizione della legge Fornero e sul voto leghista all’autoproclamata abolizione della povertà. Quel baratto tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, cui seguì il commercio indecente tra decreti sicurezza e blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, ufficializzava e di fatto legalizzava il voto di scambio tra partiti ed elettori nella sua forma più diretta, quello della dazione in cambio del consenso. Votami e ti do questo. Votami e ti do quest’altro.
A distanza di tre anni, entrambi i provvedimenti vanno verso un tagliando. Quota 100 perché scade il triennio di sperimentazione, il reddito di cittadinanza perché si moltiplicano, anche dentro la maggioranza, i dubbi sulla sua logica e sul suo funzionamento.
Il paradosso è che se su quest’ultimo si è aperta una discussione vera e accesa, con proposte di abolizione o riconversione radicale, sulle pensioni si è invece in trepida e quasi unanime attesa che il governo sostituisca quota 100 con un provvedimento di analogo tenore, che rinvii nuovamente l’entrata a regime della riforma Fornero e flessibilizzi (che è un modo politicamente corretto per dire: “anticipi”) la possibilità di pensionamento.
Ma se il reddito di cittadinanza è, almeno teoricamente, un mezzo sbagliato per un fine giusto – quello del contenimento della povertà assoluta – quota 100 è stato il mezzo giusto per un fine sbagliato, quello di una discriminazione di genere e di classe a vantaggio dei lavoratori dipendenti, in larghissima misura maschi e con una carriera contributiva regolare. Insomma, una vera porcheria anche a lume di quel senso comune solidarista, di cui l’antipolitica si fa vanto e manto, rivendicando una speciale vocazione per i derelitti.
Il fatto è che il mostrare l’evidenza dello sfascio implicito nella ripetuta manomissione del sistema previdenziale fa ad ampie porzioni dell’elettorato italiano – quelle più politicizzate e sindacalizzate, ma anche più direttamente beneficiate da deroghe ed eccezioni – lo stesso effetto che le statistiche sull’efficacia e la sicurezza dei vaccini fanno sulle – molto meno ampie, per fortuna – porzioni di opinione pubblica persuase della dittatura planetaria di Big Pharma. I bias cognitivi che stanno alla base del comportamento politico-sociale degli individui sono nei due casi sinistramente analoghi.
Poiché le pensioni sono l’agognata meta di liberazione dal lavoro e costituiscono quindi, in questa forma, un diritto sociale fondamentale, occorre negare l’evidenza che lo squilibrio della spesa previdenziale scarica sull’equità e sostenibilità del sistema di welfare e bisogna andare alla ricerca affannosa di nuovi colpevoli (a lungo i capri espiatori sono stati i politici, con i loro vitalizi, o i “furbetti” e i “parassiti” di ogni risma).
Allo stesso modo, i vaccini sono l’instrumentum regni del potere politico-economico delle multinazionali farmaceutiche, gli effetti positivi delle immunizzazioni devono essere negati e la loro apparenza spiegata in modo cospiratoriamente contorto. Complottismo chiama complottismo. Patacca chiama patacca.
Tra i fatti che i capitani della guerra alla Fornero – compreso il capo degli squadristi che si accamparono minacciosamente sotto casa sua – devono più pervicacemente negare c’è che questo circolo vizioso ha presupposti palesemente regressivi dal punto di vista sociale e generazionale, cioè non allevia la povertà di nessuno e cronicizza quella di molti e dei più giovani in particolare.
I dati sulla povertà in Italia sono in netta controtendenza con quelli europei. Tra i minori il tasso di povertà assoluta è quasi tre volte più alto che tra gli anziani. E tra le persone in età da lavoro i poveri sono mediamente il doppio che tra gli over 65 (con un rapporto ancora più sfavorevole per i lavoratori più giovani). Eppure in Italia rimane ossessivamente gerontocratica anche l’iconografia politica della povertà.
I vari sequel di quota 100 che sono stati ipotizzati – quota 41, quota 102 e così enumerando – costano tutti svariati miliardi in più rispetto al tanto e troppo che già si spende e si spenderà in pensioni. Dalla Cgil a Fratelli d’Italia non c’è chi non chieda di evitare lo scalone, cioè l’immediato ritorno ai requisiti della Legge Fornero. E non c’è nessuno che non metta in conto come dovuto un ulteriore aggravamento del deficit previdenziale.
Per questo quota 100 costituisce, come per certi versi la vicenda surreale dell’ex Alitalia, il banco di prova più complicato e significativo della responsabilità dell’esecutivo: proprio perché è una questione che affonda culturalmente e psicologicamente le radici nelle cause più profonde e strutturali del declino economico e dell’alienazione politica italiana.
Se non fosse possibile per le pressioni parlamentari tornare semplicemente alla legge Fornero – usando come strumento di emergenza l’Ape sociale e come strumento di flessibilizzazione l’Ape volontaria – sarebbe auspicabile che alla discussione fosse comunque posto un vincolo, per così dire, costituzionale, anche se purtroppo questo vincolo nella nostra Costituzione ancora non c’è, malgrado la Carta debba teoricamente tutelare l’uguaglianza di diritti tra le persone nel corso delle generazioni.
Il vincolo dovrebbe essere rappresentato dalla doverosa e rigida osservanza del saldo zero, cioè della necessità di trovare risorse per qualunque misura transitoria e sostitutiva di quota 100 all’interno della spesa previdenziale, senza aumentarne l’onere per il bilancio pubblico e soprattutto per le generazioni future. Non un euro in più in pensioni non è granché sul piano finanziario, ma può essere anche simbolicamente una svolta sul piano politico. Anche dal punto di vista patriottico, se l’interesse è alla gloria della Patria di domani e non solo a quella di ieri.