Le politiche di accoglienza a favore di migranti e rifugiati in Occidente non determinano necessariamente un aumento diretto e improvviso del numero effettivo di arrivi.
Si tratta del risultato paradossale – e carico di conseguenze politiche – di uno studio pubblicato recentemente dal Kiel Institut für Weltwirtschaft (ifw) e circolato nel settore dei media in Germania (ZDF, Focus).
Il motivo della eco dell’analisi è presto detto: le conclusioni derivano dall’analisi di un caso esemplare, un momento iconico della carriera di Angela Merkel.
È il settembre del 2015 e l’Europa vive l’apogeo della cosiddetta crisi migratoria. Il 31 agosto, in occasione di una visita presso un campo profughi di Dresda, Angela Merkel pronuncia le parole “Wir schaffen das” (“Ce la faremo” in tedesco, tda).
La cancelliera utilizza la locuzione per difendere la scelta politica di aprire le frontiere all’arrivo di milioni di rifugiati, soprattutto siriani, in fuga dal conflitto civile nel loro paese. Successivamente Merkel ripeterà le stesse parole in occasione degli attentati terroristici di Monaco, Ansbach e Würzburg.
Il sottotesto è sempre lo stesso: per un paese sviluppato come la Germania, accogliere migranti e richiedenti asilo in un momento di crisi umanitaria è un dovere. Ed è fattibile.
Ma proprio tra il 2015 e il 2016 quelle parole valgono a Merkel una pioggia di critiche, soprattutto dalle forze di destra – seguirà tra l’altro l’ascesa dell’Alternative für Deutschland (AFD, partito di destra radicale) in occasione delle elezioni federali. La cancelliera sarebbe stata responsabile di aver stimolato l’afflusso di richiedenti asilo in Germania.
In gergo accademico, viste dalla prospettiva dell’opposizione, le parole di Merkel e le politiche di accoglienza sarebbero state un “fattore di richiamo” (“pull factor” in inglese, tda.) per migranti e rifugiati. A pensarci bene, si tratta di un’argomentazione semplicistico-strumentale (quella per cui, appunto, qualsiasi azione di solidarietà verso migranti e rifugiati determinerebbe un inevitabile aumento dell’immigrazione) utilizzata contro le posizioni solidaristiche un po’ in tutta Europa. In soldoni: “Se diciamo di voler accogliere, saremo sommersi dagli immigrati”.
Eppure, lo studio del ifw smentisce che le parole di Merkel di allora – abbinate all’apertura delle frontiere – abbiano determinato un aumento inaspettato dei flussi verso la Germania.
Più nel dettaglio, Jasper Tjaden (Università di Potsdam) e Tobias Heidland (ifw) comparano i trend di immigrazione verso la Germania e altri paesi UE, prima e dopo il 2015. Per farlo utilizzano statistiche descrittive e tecniche di econometria.
In prima battuta analizzano l’entità dei flussi migratori in percentuale rispetto al picco del 2015. Nel report si legge che “nessuna analisi di econometria porta in evidenza che i segnali di policy del settembre 2015 abbiano avuto un effetto sui flussi migratori e – forse in maniera ancor più interessante – sulle intenzioni di spostamento”.
Ma l’ipotesi dell’“effetto di richiamo” potrebbe rientrare dalla finestra. Le variabili analizzate – numero di arrivi di migranti, numero di richiedenti asilo, intenzioni dichiarate di spostamento, quantità di ricerche Google sui processi burocratici per entrare nei paesi di destinazione – non dimostrano forse che, proprio dopo il noto ”Wir schaffen das”, il paese di Merkel sia diventato una destinazione preferita relativamente ad altri paesi?
Niente affatto: “Al contrario, se prendiamo come riferimento il 2015, i dati ci parlano di aumenti relativi in Spagna, Italia e Francia e di una diminuzione più rapida dell’immigrazione in Germania”.
La verità è che il 2015 è un anno di picco di un trend iniziato nel 2010-2011. La scelta di Merkel era semplicemente di buon senso. E non ha creato un impatto particolare sugli anni a seguire.
Al di là dei dati, i ricercatori spiegano anche che le fondamenta teoriche dell’ipotesi pull factor sono deboli. È bene citare almeno tre elementi dello studio anche in funzione del dibattito pubblico in Italia. Secondo Tjaden e Heidland, l’ipotesi dell’effetto di richiamo si appoggia su diversi assunti.
In primo luogo, implica che “un cambio di politiche migratorie (nei paesi di destinazione) modifichi le preferenze a priori di chi ha intenzione di partire per un altro paese”. Peccato che le preferenze dipendono dalle prospettive di impiego, legami sociali esistenti e prossimità linguistica. “Qualsiasi segnale di policy dovrebbe essere in grado di compensare questi fattori”, spiegano i ricercatori.
In secondo luogo, c’è l’assunto che i migranti siano a conoscenza delle politiche messe in campo dai paesi occidentali. “Se questo è vero per contesti che ospitano comunità di diaspora, che sono vicini geograficamente, o che godono di una copertura e penetrazione mediatica significativa”, non vale altrettanto per molti paesi dai quali partono migranti in cerca di lavoro.
Infine, la teoria del “fattore del richiamo” implica che i migranti non abbiano alcun vincolo economico-finanziario e che possano impegnarsi in viaggi costosi. Ma sappiamo bene che “le migrazioni solitamente originano da paesi a basso reddito”.
Insomma, l’evidenza empirica afferma che segnali di politiche di accoglienza e apertura non creano flussi di immigrazione ingestibili. Il “fattore di richiamo” non compensa o rimane sicuramente di impatto minore rispetto a elementi strutturali, come le situazioni di conflitto o povertà assoluta.