Hanno ragione i promotori dei referendum su eutanasia e cannabis (l’Associazione Luca Coscioni) e di quelli per la giustizia giusta (il Partito radicale) a rivendicare la propria iniziativa come esempio di un rapporto sano e non antagonistico tra democrazia diretta e parlamentare, con l’attivazione di uno strumento costituzionale non volto a usurpare o delegittimare il potere delle Camere, ma a rimuovere gli ostacoli, le censure e (soprattutto) le autocensure che impediscono al Parlamento di discutere e di decidere su temi maturi, urgenti e naturaliter divisivi, portando invece a eluderli e rimuoverli dalla coscienza politica del Paese.
La tradizione referendaria radicale, in cui anche questi referendum coerentemente si iscrivono, si fondava sul presupposto di liberare, per via popolare, il Parlamento dall’ipoteca partitocratica, cioè dalla mera pluralizzazione della logica del partito-Stato e di difendere l’autonomia delle istituzioni, a partire dalle Camere, per passare a tutti gli altri gangli del potere pubblico, dall’invadenza di partiti “occupanti”, che alle ragioni e ai vantaggi dell’occupazione sacrificavano la responsabilità del governo e delle decisioni.
Non è un caso che la strategia referendaria radicale dispiegò la propria maggiore forza durante la stagione più ambigua del dopoguerra, con Dc e Pci che facevano coincidere la stabilità dello Stato e delle istituzioni con la tenuta di un quadro politico insieme iperpolarizzato e superconsociativo, cioè con una democrazia sostanzialmente bloccata ed espropriata di ogni possibile alternativa.
Anche in questo contesto, nelle sue proposte “contro la partitocrazia” e “contro il regime” Marco Pannella non presentò mai quella referendaria come una forma di autogoverno popolare, ma al contrario come un’istanza di controllo democratico, inverata, ma anche limitata dalla funzione esclusivamente abrogativa del referendum, ritenendone invece la versione propositiva suscettibile di un uso plebiscitario e politicamente surrogatorio del potere del Parlamento.
In ogni caso, è di palmare evidenza che il significato del referendum, al di là del suo perimetro e della sua natura costituzionale, è essenzialmente nell’uso che se ne fa, nell’idea di democrazia e di sovranità cui viene messo al servizio.
I referendum (non solo quelli radicali) sono stati fino alla prima metà degli anni Zero mossi complessivamente da istanze di modernizzazione civile, sociale e economica, con alcune eccezioni, le più ragguardevoli delle quali furono i referendum conservatori sul taglio della scala mobile nel 1985 e contro le tv berlusconiane nel 1995. Ma sono stati referendum riformatori non per una virtù intrinseca dello strumento referendario: semplicemente perché sono stati promossi da forze riformatrici, con un’idea costituzionale della democrazia parlamentare e della sovranità popolare, delle istituzioni politiche e dello Stato.
Oggi, nell’Italia bipopulista, cioè nel Paese occidentale più contagiato dalla malattia più temibile per la democrazia contemporanea, nulla esclude e tutto fa presagire che la Spid-democracy con la sua oggettiva potenza sarà presto piegata a una cultura e a obiettivi politici che non hanno nulla da condividere con i referendum radicali: né con gli attuali, né con i precedenti.
La cultura referendaria dei populisti trasversali continua a raccogliersi attorno a un ideale distopico di “autenticazione diretta” delle scelte delegate a quel mero simulacro della sovranità popolare, cui sarebbe ridotto il Parlamento. “Autenticazione” che la democrazia digitale rende teoricamente immediata nei tempi e istantanea negli effetti, come il gradimento del pubblico da casa per i cantanti di Sanremo. La verifica della presunta conformità o difformità di ogni legge dalla cosiddetta volontà generale dipenderebbe dal responso di un oracolo collettivo, permanentemente convocato a emettere responsi casuali e manipolabili. L’agorà e la partecipazione democratica trasmutata in televoto. La volontà popolare in “gentismo” organizzato.
Questo rischio non è legato allo strumento del referendum, ma al sostrato ideologico e al fine politico di chi l’adopera. Del resto non solo la democrazia diretta, ma anche quella rappresentativa è purtroppo esposta a derive plebiscitarie, come dimostra l’automutilazione delle Camere compiuta in questa legislatura con voto quasi unanime dagli eletti di Montecitorio e Palazzo Madama e ovviamente confermata nel voto popolare da un popolo sovrano educato al disprezzo della democrazia, “mangiatoia” di un ceto politico parassitario. Non è quindi senza senso – al contrario! – la preoccupazione su come circoscrivere i danni, che potrebbero essere comunque ingenti, di un uso plebiscitario dell’arma referendaria.
Il rimedio non può certo essere quello para-luddistico di “proibire” lo Spid in politica, scelta che avrebbe un effetto puramente discriminatorio. Andrebbe anzi esteso anche alla raccolta firme per la presentazione delle liste elettorali, per non favorire alcune forze politiche – più ricche, organizzate e insediate nelle istituzioni – a danno di altre.
Sono immaginabili rimedi più seri, relativi non all’accessibilità, ma all’ammissibilità dello strumento referendario e all’approvazione delle proposte, ma sarebbe oggi difficilissimo approvarli, visto che la cultura prevalente sul referendum in questo Parlamento è quella populista-sovranista, perfettamente rappresentata da un proposta di legge Lega-M5S, di cui solo la caduta del governo gialloverde scongiurò l’approvazione. In questa proposta, le iniziative legislative popolari danno automaticamente luogo a un referendum propositivo senza quorum, se il Parlamento non le approva entro diciotto mesi nell’esatto testo presentato.
Nella sostanza il Parlamento dovrebbe obbedire o perire e ben si comprende questa scelta da parte di forze politiche che nella sostanza ritengono – come la vecchia partitocrazia o l’ancor più vecchio fascismo, ma con un surplus di ignoranza rispetto a entrambi – che il Parlamento non sia una cosa diversa dal Partito (o dai partiti) e quindi rappresenti una superfetazione inutile nel rapporto sano e “organico” tra popolo e potere.
Quest’idea in termini di merito e di metodo, di forma e di sostanza potrebbe però anche essere adattata a un uso eversivo e programmaticamente anti-parlamentare del referendum abrogativo, senza toccare di una virgola le norme costituzionali e ordinarie oggi vigenti.