L’approvazione della riforma Cartabia è una buona notizia per molte ragioni, la prima delle quali è che comporta la cancellazione della riforma Bonafede. E questa è un’ottima notizia, resa ancora più significativa dalla coincidenza temporale con la sentenza d’appello nel processo sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia».
Trattativa che a quanto pare non c’è mai stata (quando si arriva a dire che la trattativa c’è stata perché la mafia ha avanzato delle richieste, anche se nessuno le ha accolte, il problema non è più giuridico e tanto meno politico, è semplicemente un problema di italiano).
Trattativa, soprattutto, che se anche ci fosse stata, mai avrebbe dovuto chiamarsi così, come fosse un negoziato bilaterale gestito dai legittimi rappresentanti di due organizzazioni che si riconoscono reciprocamente: lo Stato da un lato, la mafia dall’altro. Nel qual caso, peraltro, non si capisce perché la questione avrebbe dovuto essere affidata a un tribunale, e dove sarebbe stato il reato. E se invece il tradimento del ministro o dell’ufficiale Tizio fosse stato accertato, che è quanto la sentenza di ieri esclude, avremmo dovuto chiamarla, semmai, trattativa Tizio-Mafia.
Come è possibile non rendersi conto che il fatto stesso di chiamarla Trattativa Stato-Mafia è il più grande regalo che si possa fare alla criminalità, è purissima propaganda mafiosa, è un tic linguistico pernicioso, figlio di una sottocultura eversiva e criminogena?
Su molti di questi tic appare decisa a intervenire, meritoriamente, la ministra Marta Cartabia, compreso il modo in cui si danno i nomi e si presentano le inchieste appena avviate (oggetto di un apposito decreto legislativo), che è un pezzo fondamentale dell’ingranaggio in cui viene stritolata ogni giorno la presunzione d’innocenza in Italia.
Intanto, con tutti i compromessi e i limiti di cui si è già discusso ampiamente, il varo della sua riforma della prescrizione ristabilisce il principio fondamentale della ragionevole durata del processo, che i Cinquestelle volevano abolire, da ultimo anche con la complicità del Pd. E questo, insieme con il voto a favore del taglio costituzionale dei parlamentari, è stato certamente uno dei punti più bassi toccati dai sostenitori dell’alleanza strutturale con i grillini.
Per fortuna è arrivato il governo Draghi a interrompere questa discesa inarrestabile verso la barbarie e a invertire la rotta. Ma il fatto stesso che per interromperla ci sia voluto un governo di emergenza, guidato da un ex presidente della Bce, dimostra quanto profondamente abbia attecchito il virus del populismo, e quanto deboli siano gli anticorpi del nostro sistema politico, anche a sinistra.