È arrivato il rimbalzo. L’economia italiana si sta rialzando dalla crisi in cui la pandemia l’aveva gettata. E i fondamentali della prima parte dell’anno, se confrontati con lo stesso periodo del 2020, il peggiore, quello del lockdown, vedono come previsto un balzo positivo, che anzi è anche migliore di quello stimato, almeno sul versante del Pil.
Allo stesso modo l’occupazione, che dall’inizio del 2021 ha cominciato a riprendersi. Non tutta però.
Se gli occupati a tempo indeterminato, lo zoccolo duro più resistente del mondo del lavoro, non aveva praticamente subito contraccolpi, e se i lavoratori a termine hanno messo a segno un recupero spettacolare – erano a giugno 2020 il 17,5% in meno di un anno prima e nello stesso mese di quest’anno il gap si è ridotto al 3,1% – lo stesso non si può dire per un’altra categoria, quella dei lavoratori autonomi.
Sono sostanzialmente le partite Iva, coloro che hanno un’attività in proprio. Non c’è nessun rimbalzo per loro, e mese dopo mese è chiaro che si avviano a essere le maggiori vittime di questa crisi. Rispetto al giugno 2019 sono diminuite del 7,2%, che in valore assoluto vuol dire circa 345 mila occupati in meno. Il tutto in un bacino che è uno dei più ampi d’Europa.
E non sembra esserci neanche un accenno di recupero. Solo, quest’anno, un po’ di stabilità, con il numero complessivo dei lavoratori indipendenti che pare essere rimasto sostanzialmente lo stesso da gennaio.
Ma se si allarga lo sguardo più in là, a molto prima della pandemia, si scopre che come in altri ambiti, per esempio nella digitalizzazione, così anche in questo caso siamo di fronte in realtà a una mera accelerazione di un trend già ben presente da molto tempo.
Sono più di 15 anni che i lavoratori autonomi in Italia diminuiscono. Nel 2004 per l’Istat erano 6,3 milioni, circa 1,4 in più di ora. E se il loro calo ha preso velocità durante le crisi, per esempio tra il 2008 e il 2013, non vi è stato nei momenti di ripresa un vero recupero, come non vi è ora.
Sostanzialmente in 17 anni, tra il 2004 e il 2021, appunto, vi è stato un calo di più del 21% del loro numero, mentre gli occupati permanenti sono cresciuti del 5,4% e quelli a termine addirittura del 55,3%, nonostante il Covid.
Non dobbiamo però fare l’errore di considerare questo vastissimo mare del lavoro autonomo come un blocco omogeneo.
Si tratta di un insieme di professioni, mestieri, attività quanto più variegati. E il trend di calo che è pur così evidente nasconde in realtà andamenti molto diversi.
Che tra l’altro mostrano quanto sia cambiato dagli anni 2000 nell’economia italiana.
In sostanza a fronte di una decisa riduzione del numero degli imprenditori, comunque piccola minoranza in questo mondo, e di quello di coloro che sono chiamati dall’Istat “lavoratori in proprio” si è assistito a un aumento superiore al 20% di quanti sono definiti “liberi professionisti”. Spesso confusi tra loro nel grande universo delle partite Iva da un lato abbiamo, nel primo caso, artigiani, commercianti, padroncini, meccanici, elettricisti, negozianti, ecc e nel secondo coloro che prestano un lavoro professionale normalmente più di tipo intellettuale, dall’avvocato al consulente al free lance, all’architetto, al medico.
Ebbene questi ultimi, pur rimanendo ancora una minoranza nell’ambito dei lavoratori indipendenti, sono diventati sempre di più.
Naturalmente come sappiamo il fatto che questi siano mediamente più istruiti non implica che abbiano entrate più alte, o che questo trend abbia significato un maggior benessere dei lavoratori autonomi. Tutt’altro. In questo mondo vi sono i tanti lavoratori, spesso giovani, che lavorano per un committente come partita Iva, più o meno finta, e si devono accomodare come in una sorta sala di attesa, quella dei molti che non sono riusciti a entrare nell’”Olimpo” del contratto a tempo indeterminato e che sperano di accedervi in seguito. Ha naturalmente contribuito a questo la creazione nel 2011 del regime dei minimi e poi in anni recenti la sua estensione.
Una conferma di tutto ciò vi è nel fatto che a crescere sono stati solo i liberi professionisti senza dipendenti, aumentati dal 2004 al 2020 quasi del 30%. Mentre gli altri, quelli magari con uno studio professionale alle spalle, si sono ritrovati in calo anch’essi.
Ovviamente chi se l’è cavata peggio sono stati i lavoratori in proprio. In questo caso è tutto un mondo che è scomparso, quello che ancora negli anni ‘90 si riteneva addirittura dominante in alcune aree del Paese.
Messi fuori gioco dai grandi centri commerciali e dalle catene prima, e dall’e-commerce dopo, nel caso dei negozianti, sconfitti dalla crisi post-Lehman Brothers e dalla stretta sul credito in quello dei piccoli artigiani e dei micro-imprenditori, hanno vissuto anche una sorta di crisi generazionale con tante attività che non sono divenute familiari per la mancata volontà dei figli, avviati verso altri lidi, di prendersene cura.
Non stupisce che sia al Nord, e in particolare al Nord Est, dove 20-25 anni fa la presenza dei lavoratori autonomi aveva assunto un significato anche politico, che questi sono diminuiti di più, di oltre il 25%.
Questi dati dimostrano che anche quando a livello aggregato si scorge un trend positivo, come quello che ha segnato la ripresa dopo la crisi dal 2014 e quello che, si spera, è cominciato oggi, non mancano vincitori e vinti. E che è troppo comodo osservare solo il quadro complessivo.
Anche perché nella vita reale non accade molto spesso che l’artigiano 50enne, titolare di un negozio di ferramenta messo fuori mercato dall’online e poi magari distrutto dalla pandemia, possa magicamente riciclarsi in qualche altro settore. Andrà a lavorare da Amazon se ce la fa? O nella gig economy o in qualche centro commerciale? Può darsi, sempre che non ci siano, come è naturale, giovani più appetibili di lui.
Il problema però non è questo processo, che è naturale, che in altri Paesi è già avvenuto, e se non è avvenuto in questa misura è perché in partenza non vi erano così tanti autonomi come in Italia. Il problema è la mancanza di politiche attive del lavoro che potessero prevedere e accompagnare tali trasformazioni, fornendo competenze, potenziando quelle già presenti, incentivando le aziende ad assumere chi usciva da esperienze di lavoro indipendente non più sostenibili.
Nel Next Generation Eu vi è qualcosa, si parla di upskilling, di recupero di coloro che rimangono esclusi. Si dovranno occupare ancora di questo mondo, perché per loro la crisi non è finita e probabilmente non finirà ancora per molto tempo. Altrimenti le uniche soluzioni rimarranno sempre le stesse, quelle legate alla pura assistenza, fatta di pensionamenti anticipati, sussidi, redditi di cittadinanza.