Nel giugno di ventiquattr’anni fa ero ventiquattrenne, e avevo appena finito di condurre il mio primo programma radiofonico, del quale ricordo solo due cose: che il dj mio coconduttore commentava entusiasta pilastri della storia del rock, e al suo entusiasmo io rispondevo sempre e solo «c’è troppa batteria»; e che, dall’edicola che all’epoca era in via Oslavia (avrà chiuso, come tutte), le riviste musicali inglesi ci arrivavano con un tale ritardo che, ogni volta che il tapino leggeva una notizia in onda, io sbuffavo perché due settimane prima avevo già dato conto della smentita, reperita su quella diavoleria moderna che era l’internet (dopo averla stampata: all’epoca l’internet la stampavi, specie se le cartucce le pagava la Rai).
Nel giugno di ventiquattr’anni fa il direttore della radio mi convocò; non l’avevo mai visto prima, mi aveva voluta lì Bruno Voglino – che è un pezzo di storia della tv italiana che se devo spiegarvelo smettete subito di leggere qui e andate a studiare, ma in quella stagione era vicedirettore della radio; il direttore della radio mi convocò e mi fece una sola domanda: ma lei perché odia la radio?
Ma no che non la odio, dissi, sincera. Come le viene in mente, aggiunsi. Evitai di dire che non l’avevo mai ascoltata, come potevo odiarla? Condussi programmi in radio per i successivi quattro anni, ma questo non è un articolo di smentita della tesi secondo cui s’impara a fare una cosa consumando i prodotti di chi l’ha fatta prima di te (chissà come ha fatto Shakespeare a scrivere, senza aver letto Shakespeare).
Da adulta si sono scordati della mia vita in radio, e hanno cominciato a chiedermi di questo o quel podcast; ho perfezionato la risposta: sono disposta ad ascoltare gente che parla solo se quella gente sono io.
E allora perché non fai un podcast tuo? Perché, cara amica che me lo domandi convinta che, se t’intrattengo essendo meno noiosa conversatrice di te, allora che ci vorrà mai a fare un podcast, ti svelo un segreto: il podcast lo devi scrivere, incidere, montare. È un lavoraccio, e te lo pagano meno d’un articolo. E la ragione per cui te lo pagano meno è che i podcast sono una bolla: è un mercato che non esiste, almeno in Italia. Ne farei uno solo per farlo all’americana, dove i conduttori nel mezzo d’una serissima conversazione sulla pandemia, sulla guerra, sull’emergenza ambientale si mettono a promuovere un antifurto o un detersivo o qualunque sia lo sponsor. Ambirei a essere il Giorgio Mastrota dei podcast. Ma qualcuno m’ascolterebbe?
Ho un amico che ciclicamente m’ingiunge d’ascoltare qualche intervista di Joe Rogan, il più interessante multimilionario di cui non avete probabilmente mai sentito parlare, uno che ha venduto a Spotify l’esclusiva sui suoi podcast per più di cento milioni di dollari. Rogan intervista personaggi interessanti, e li intervista per ore, quindi il mio amico ha ragione: certo che voglio sentire Tarantino o Dave Chappelle parlare di sé più a lungo che in una seduta psicanalitica; ma i podcast di Rogan durano quattro ore, quindi il mio amico ha torto: chi diavolo ha quattro ore per ascoltare gente che parla? Forse i pendolari, ma io neppure ho la patente.
Sono tuttavia lieta di constatare che è più di un anno che nessuno mi chiede «ma perché non fai un podcast?»: in questo anno la domanda è stata soppiantata da «ma perché non fai una newsletter?». La gente che me lo chiede in genere sa che sterminato numero di parole scriva io ogni giorno, tra un mezzo di comunicazione e l’altro, e tuttavia ritiene che l’orticello delle newsletter vada coltivato.
Anche lì: certo, in America. Andrew Sullivan, che l’anno scorso si è stufato delle suscettibilità redazionali al New York Magazine e – come Bari Weiss e altri – ha portato il proprio giro d’affari sulla piattaforma di newsletter Substack, a giugno ha annunciato d’avere raggiunto i diciottomilaecinquecento abbonati paganti. A 50 dollari l’anno l’uno, fanno 925mila dollari. Non so quanto trattenga la piattaforma, ma azzardo che Sullivan quest’anno non abbia il problema delle bollette.
Se scrivi in inglese però hai un pubblico mondiale, e se scrivi per gli americani hai un pubblico abituato a pagare per tutto, dalla tv generalista alle presentazioni dei libri. Gli italiani, che si offendono se al museo c’è da pagare un biglietto, figurati mai se ti danno cinquanta euro l’anno per leggere solo te. Devi presidiare il territorio, ma devi farlo gratis.
Hanno tutti il terrore di perdersi qualcosa, di non essere da qualche parte, e che la qualche parte in cui non sono poi si scopra proprio quella in cui invece sarebbero dovuti essere. Per dire: nell’ultimo anno varie persone, e non tra le più sceme che conosco, hanno cercato di convincermi che proprio non potessi mancare da Clubhouse. Non avevo ancora finito di dire ma voi siete scemi, ma come vi viene in mente, ma un social di gente che parla è la mia idea di inferno, che già Clubhouse era dimenticato.
Tempo fa qualcuno mi ha parlato di Tizia. Tizia è apparentemente una persona normale, mia coetanea, non particolarmente smaniosa. Me ne parlavano in quanto ex moglie di Tizio. E, come fosse stata una cosa normale, mi hanno detto: si erano conosciuti su MySpace. Ma come su MySpace. Ma ai tempi di MySpace noi avevamo cosa, trent’anni, trentacinque? Ma cosa ci facevano su MySpace? Ma quando ha chiuso MySpace? C’era già l’euro?
Non avevo neanche finito di formulare la domanda che mi sono ricordata che miei coetanei sono pure i cinquantenni che stanno su Tik Tok a fare i balletti per sembrare meno vegliardi ai figli.
E d’altra parte vuoi non stare su Twitter a farti leggere dai direttori? E su Instagram che un giorno magari ti riposta la Ferragni e smetti d’essere una morta di fame? E su Facebook a far vedere ai parenti che sei della razza tua la prima che ha studiato?
Ventiquattro estati fa non avrei mai detto che, ventiquattro estati dopo, sarebbe continuato a non fregarmene niente di quel che avevano da dire gli altri, ma su così tanti mezzi di comunicazione. Su molti dei quali smanio per farmi ascoltare pure io, plausibilmente pure io da gente che smania per ascoltare solo sé stessa.