Il testacodaLo strano caso dei leader della sinistra italiana: prima liberal, ora radical ammaliati dai populisti

Il dibattito in corso sulla stampa internazionale a proposito delle nuove tendenze del movimento progressista è molto interessante, ma la sua traduzione italiana necessita di alcune note a piè di pagina

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C’è qualcosa che non torna, almeno a seguirlo da qui, nel dibattito sulle nuove tendenze del movimento progressista, e in particolare sul rischio di una «sinistra illiberale», aperto due settimane fa dall’Economist, ma in un certo senso anche dalle riflessioni di Anne Applebaum sui «nuovi puritani» della cancel culture nell’ultimo numero dell’Atlantic, e se volete, in qualche modo, persino dalle polemiche sul vestito di Alexandria Ocasio-Cortez con su scritto «Tax the rich», ampiamente circolate sulla stampa e i social network di mezzo mondo. Si tratta della tendenza a mettere insieme, sotto la stessa etichetta di populista o illiberale, posizioni politiche che non solo sono molto diverse, ma che è bene rimangano ben distinte.

Non è solo questione di differenze storiche e linguistiche, che pure pesano, in particolare rispetto al diverso significato che i termini «liberal» e «populist» hanno nel linguaggio politico americano rispetto ai corrispondenti termini del linguaggio politico italiano (ed europeo). Il problema è la tendenza a mettere sotto la stessa etichetta, ad esempio, Donald Trump e Bernie Sanders, cioè quello che nel linguaggio politico italiano definiremmo populismo (questo sì illiberale) e quello che noi chiameremmo sinistra radicale.

Guai se i liberali – nel senso italiano/europeo del termine – smarriscono la capacità di distinguere chi non condivide con loro i principi fondamentali su cui si fonda lo stato di diritto e chi non condivide la loro opinione su quale sia il livello ottimale cui collocare l’ultima aliquota fiscale.

Il pericolo di uno scivolamento della sinistra su posizioni populiste e illiberali non è rappresentato dalle richieste di una diversa regolazione del mercato dei capitali, di un maggiore intervento pubblico nell’economia o di una diversa e maggiore tassazione dei patrimoni, tutte questioni su cui si può essere d’accordo o meno, ma che non rappresentano certo una minaccia alla democrazia, allo stato di diritto o alla convivenza civile. Altro discorso è promuovere la gogna pubblica e i processi sommari quale massima forma di giustizia, come sta accadendo in America, da parte di quelli che Applebaum chiama i «nuovi puritani».

Il problema si pone quando, come è accaduto in Italia, si considerano di sinistra, in nome della lotta contro «la casta», movimenti politici che diffondono teorie cospirazioniste di stampo para-nazista come la teoria della sostituzione etnica, che alimentano le più diverse farneticazioni antiscientifiche (no vax e non solo), che conducono campagne contro le ong che salvano vite in mare, esattamente allo stesso modo e con le stesse parole d’ordine di tutta l’estrema destra italiana ed europea, secondo il modello portato al successo da Viktor Orbán in Ungheria. Non a caso noto per avere teorizzato e realizzato nel suo paese un perfetto modello di «democrazia illiberale».

La distinzione tra populismo (illiberale) e sinistra radicale non è insomma un problema terminologico. Non è questione di parole. È questione di sostanza, di principi e di scelte politiche.

C’è però un’altra ragione che rende questo dibattito, in Italia, particolarmente complicato ed equivoco. Ed è che negli Stati Uniti e nel resto d’Europa il confronto tra quelle che potremmo chiamare sinistra liberale e sinistra radicale si giova almeno del fatto che i componenti delle due squadre sono chiari e facilmente identificabili. Negli Stati Uniti, ad esempio, da un lato ci sono i Clinton (prima Bill, poi Hillary), dall’altro c’è Bernie Sanders. E così in Gran Bretagna, da oltre vent’anni, da un lato c’è Tony Blair, che difende le posizioni e i risultati della terza via, dall’altro c’è un’ala sinistra che li contesta.

In Italia, invece, gli stessi che negli anni novanta teorizzavano l’Ulivo mondiale e promuovevano la terza via con Clinton e Blair, da qualche anno, cambiato il vento, tuonano contro quelle stesse politiche. L’esempio più recente è l’intervista di Romano Prodi al Corriere della sera di martedì, in cui, parlando della costruzione dell’Ulivo come risposta a «un’esigenza diffusa» che avvertiva nel paese, dice testualmente: «Quell’esigenza rimane, anche se non si può declinare più come Ulivo. Il riformismo deve trovare un’identità nuova dopo 35 anni di un liberismo che ha devastato i diritti sociali».

Ora, comunque si valuti quel poco o tanto di liberismo che si è avuto negli ultimi venticinque anni in Italia (trentacinque dev’essere senz’altro un lapsus), qualunque cosa si pensi delle scelte compiute con le grandi privatizzazioni, il pacchetto Treu sul mercato del lavoro, le politiche di austerità di bilancio, su una cosa si dovrebbe essere tutti d’accordo: pochi, e forse nessuno, hanno avuto un ruolo maggiore di Prodi, prima come presidente dell’Iri e poi come capo del governo, praticamente in ciascuna di quelle scelte.

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