Le sfide per i professionistiNel futuro degli autonomi dopo il Covid ci saranno più welfare e lavoro in team

Iscritti agli ordini in calo, redditi bassi, divari generazionali e geografici. Sempre più partite Iva si spostano verso i rapporti subordinati alla ricerca di maggiore sicurezza. Ma il rischio è di perdere competitività nei servizi alle imprese e ai cittadini

(Pixabay)

Le trasformazioni in corso, accelerate dal post pandemia, renderanno ancora meno definito e definibile il settore del lavoro autonomo. Cosa che però non deve portarci a rinunciare a un’analisi attenta, o peggio, a proseguire con i luoghi comuni.

Il bacino di oltre 5 milioni di lavoratori indipendenti è molto composito e diversificato. I dati Istat dicono che il mondo degli autonomi è magmatico e che negli ultimi anni è in sofferenza. Un sistema da saper leggere ed interpretare, con uno zoccolo duro di professionisti iscritti agli ordini mediamente stabile e un’area in trasformazione, fortemente caratterizzata da scelte estemporanee fondate su convenienze e necessità fiscali non sempre stabili. Parliamo della parte più mobile del mercato del lavoro, ovviamente, ma che può dirci molto anche rispetto a quello che definito «lavoro tradizionale», che tanto tradizionale non è più se pensiamo al lavoro agile e ai lavori in piattaforma.

Una premessa è ormai d’obbligo: di fronte a vite lavorative lunghe e incerte, moltissimi durante l’arco della propria carriera lavorativa svolgono e svolgeranno più lavori anche con diverse forme contrattuali. Per questo non è facile effettuare un’analisi valida nel tempo. Un esempio di questa crescente volatilità ci è dato dal mondo delle libere professioni, che ormai da qualche anno è oggetto di attenzione da parte della politica (si pensi all’introduzione di alcune misure di welfare, come sgravi fiscali sulle spese per l’orientamento e la formazione o alle numerose misure Covid riguardanti il sostegno al reddito e l’esonero dei contributi).

I trend in corso
Le informazioni oggi messe a disposizione da parte di Agenzia delle entrate, Istat, Inps, Confprofessioni, Adepp e altre istituzioni permettono però di fotografare alcuni trend utili per conoscere meglio il mercato dei servizi professionali.

Tra i principali: l’invecchiamento della platea, una crescita della componente femminile in tutte le professioni, il consolidamento dei gap generazionali, geografici e di genere. Infine, la «proletarizzazione» che sta riguardando alte percentuali della platea, con numerosi professionisti che hanno redditi che non superano i 30mila euro annui, come è emerso dal numero di istanze presentate per beneficiare degli aiuti Covid.

Certamente, il settore non è statico come lo è stato per anni, ma in forte trasformazione e chiaramente interessato dalle importanti transizioni di oggi: digitale, green e quella della globalizzazione dei mercati. Software avanzati, intelligenza artificiale, blockchain e machine learning avranno sempre più un effetto dirompente anche sui servizi professionali.

Tutto questo suggerisce che occorre ridisegnare la libera professione già nella fase di formazione del futuro professionista e nell’attività di aggiornamento dello stesso. Aggiornamento che dovrà essere continuo durante la carriera professionale al fine di ammortizzare i mutamenti che l’economia dei servizi e il mercato del lavoro riserveranno. Le sfide che stanno interessando il settore dei professionisti sono molteplici.

Redditi bassi
Partiamo dai dati. Anzitutto, si pensi alla saturazione di alcuni settori, messa ancor più in evidenza durante le crisi. In quello giuridico, specialmente, si registrano oltre 245mila iscritti all’albo degli avvocati, dato tra i più alti nell’Eurozona, con picchi di sette legali ogni 1.000 abitanti in Calabria.

Nell’ultimo decennio, poi, si è assistito a un allungamento della durata media necessaria per il reperimento del lavoro dopo la laurea (di secondo livello o quelle a ciclo unico) e a una dilatazione temporale della “gavetta” cui il giovane professionista è sottoposto per raggiungere i redditi medi dichiarati dagli iscritti alle Casse over 40. Sono circa 23 i mesi che un neolaureato in giurisprudenza deve attendere dall’abilitazione all’avvocatura per percepire il primo reddito che non supera i 1.412 euro, 8,9 mesi per gli architetti con una prima mensilità di 1.501 euro e circa 15,9 i mesi che attendono gli esperti contabili per godere della prima retribuzione.

Le libere professioni, nonostante una fase ventennale di crescita in termini di iscritti ad albi e casse, hanno visto consolidarsi il divario retributivo generazionale e geografico (20.028 euro percepiti da un consulente del lavoro calabrese e 93.105 gli euro percepiti da un collega altoatesino).

Iscritti in calo
La somma di queste incognite sta determinando una crisi delle vocazioni (specie per le professioni “classiche”) come ci dimostrano il crollo del numero di abilitazioni alla professione di dottore commercialista e ragioniere nel decennio 2010–2019 (-64,1%) e per i geometri (-41,6%) e l’aumento del fenomeno delle cancellazioni dalle Casse di previdenza (6mila dal 2012 al 2019). Lo stesso si può dire per le professioni legali, per i giornalisti o gli agenti di commercio, interessati da importanti cambiamenti strutturali di mercato. Secondo quanto riportato dai registri del Ministero dell’Istruzione, della Giustizia e dalle Casse e Ordini di competenza, le nuove abilitazioni agli albi sono diminuite complessivamente del 15,5% in dieci anni.

Non ultime, stanno influendo in questo trend le nuove opportunità lavorative offerte dal Pnrr – contratti indeterminati, a termine e a chiamata – le quali stanno dirottando parte dei giovani professionisti verso la dipendenza, speranzosi di una stabilità retributiva e contributiva non sempre garantita a chi sceglie di mettersi in proprio in questo clima di incertezza.

Questi numeri sono costituiti da professionisti scoraggiati, senza una clientela consolidata, pronti a cambiare attività in presenza di opportunità più convenienti, con un comune denominatore: sono prevalentemente under 40 e operano nel Centro Sud.

Per tamponare le emorragie di giovani iscritti, gli amministratori di Casse e Ordini hanno attivato straordinarie misure di sostegno come polizze Rc gratuite, garanzie su finanziamenti bancari o crediti speciali per passaggi della titolarità dello studio.

E in questo clima di disaffezione alla professione, assumono particolare rilevanza anche i costi cresciuti notevolmente: le spese di avviamento dello studio, canoni di locazione, attrezzature tecnologiche e devices, assicurazione professionale, formazione continua, oneri fiscali e adempimenti in materia di privacy.

Come cambia il lavoro
Le prime due crisi del terzo millennio, quella finanziaria prima e quella pandemica poi, hanno costretto molte realtà aziendali ad attuare una drastica riduzione dell’outsourcing di servizi professionali (consulenze legali, contabili e informatiche), in cambio di una internalizzazione di professionisti, soprattutto giovani, da inserire nella propria organizzazione interna. Questa tendenza è mossa dalla necessità per le aziende di abbattere i costi che si verrebbero a creare avvalendosi di società terze per la fruizione di servizi specializzati. A ciò è seguito un conseguente abbassamento delle retribuzioni riconosciute alle società di avvocati, ingegneri, informatici nell’ottica di una maggiore competitività “al ribasso” sul mercato. Molti hanno colto queste opportunità, stanchi della condizione precaria in cui erano relegati, per cambiare lavoro. Lo stesso potrebbe accadere oggi nella pubblica amministrazione, con le occasioni di assunzione offerte dal Pnrr.

Inoltre i molti professionisti con un’attività già avviata, anche per ammortizzare i rischi e le perdite di mercato, hanno deciso di aggregarsi in società o studi associati capaci di operare oltre il mercato locale, più competitivi rispetto alle ditte unipersonali guidate per lo più da specialisti avanti con l’età. L’esempio dei consulenti del lavoro è incisivo: dalle 119 società tra professionisti attive nel 2018, si è passati a 622 nel 2021 (dati Enpacl).

Quali azioni mettere in campo?
Anzitutto, a monte serve accompagnare i giovani che scelgono la professione con percorsi formativi multidisciplinari e mediante percorsi universitari utili sia ai nuovi professionisti sia ai collaboratori dei “nuovi” studi. Oltre quelle accademiche e tecniche, urgono le competenze trasversali o “soft skill”: comunicative e di marketing, le competenze digitali, statistiche, nonché quelle sociali come l’empatia.

Ciò per rendere lo studente più equipaggiato e consapevole anche col fine di superare meglio possibili difficoltà e remore che sorgono durante gli studi universitari prima di intraprendere il percorso della professione.

Per le realtà già costituite, ci sono alcune best practice degli studi che sono riusciti a sostenere l’impatto della pandemia e delle grandi trasformazioni nel settore dei servizi. Adottare un approccio olistico, ad esempio, che vede lo studio come una unità organica per la quale tutti i membri del team, soprattutto i più giovani e il personale dipendente, hanno un ruolo chiave nel successo dello studio. Questo con l’ottica di consolidare il valore del brand, il senso di appartenenza, il potenziale apportato dal networking e la capacità di gestire i numerosi cambiamenti.

Serve poi convertire le politiche delle risorse umane per garantire percorsi di carriera fortemente motivanti, basandole ora sulla necessità di attrarre i talenti attraverso tre componenti fondamentali: retribuzioni più alte della media del settore, formazione continua, welfare.

Relativamente al primo aspetto, alcuni studi professionali già prevedono review annuali delle remunerazioni secondo griglie di competenze che monitorano la crescita individuale di ciascun collaboratore, per la quale, dopo un momento di assessment condotto a inizio anno, si corrisponde un aumento di compenso.

La parte variabile della retribuzione rappresenterà la vera leva di crescita in una situazione di ripresa economica. Non a caso, molte attività legali puntano ad esempio sullo stimolo produttivo dei singoli collaboratori per incentivare lo spirito imprenditoriale proprio di un libero professionista con sistemi di remunerazione fondanti sulle capacità commerciali di ognuno.

Particolare rilievo ricoprono, in tema di formazione, i fondi interprofessionali, che forniscono piani formativi di specializzazione e aggiornamento necessari per chi vuole posizionarsi in nuove nicchie di mercato (data la normativa in continuo aggiornamento).

Il Piano di ripresa e resilienza ha indicato la strada della sostenibilità, dei criteri Esg, della digital transformation e dello sviluppo infrastrutturale come futuri sbocchi di attività. I tempi sono maturi anche per l’introduzione dell’intelligenza artificiale per le attività seriali o per lo sfruttamento della miniera dei Big Data.

Infine sempre più importanza assumerà il welfare di natura aziendale e contrattuale. La bilateralità degli studi professionali da anni è chiamata a operare in ambiti strategici come la tutela della sicurezza e della salute sul lavoro, la formazione, il welfare, la conciliazione dei tempi di vita e lavoro, il sostegno al reddito ed a rispondere alle sfide che un mondo del lavoro in continua evoluzione pone al settore.

Le società che adottano piani di welfare dedicati ai collaboratori e datori di lavoro riportano un considerevole ritorno in termini di produttività.

Stiamo assistendo a fenomeni di ibridazione, fusione, trasformazione ed evoluzione delle professioni. I consulenti del lavoro, ad esempio, non sono più solo redattori di cedolini paga, ma anche consulenti e gestori delle risorse umane, esperti di politiche attive e passive del lavoro, di relazioni sindacali, e nella gestione di crisi di impresa. Quindi diventano importanti anche per i professionisti welfare e politiche attive, soprattutto per gestire le tante transizioni di long working life.

Occorre inoltre promuovere politiche attive anche per agevolare la transizione dall’università all’attività professionale, cercando di rafforzare studi multidisciplinari e digitali, capaci di operare su più mercati.

Il rischio, altrimenti, è quello di avere una working poor class, anche in questo settore, e di perdere come Paese competitività nei servizi professionali alle imprese e ai cittadini.

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