A metà degli anni Novanta, la mia idea dell’industria televisiva venne inquinata dalla lettura d’un libro americano. S’intitolava “The Late Shift”, e raccontava di quando nel 1991 Johnny Carson, che faceva il programma più noto della seconda serata americana, il Tonight Show, annunciò che sarebbe andato in pensione, e ci fu la lotta per la successione tra Jay Leno e David Letterman.
Teoricamente vinta da Leno, che si prese il programma della Nbc mentre Letterman passò alla Cbs. Poi Letterman è rimasto nella storia della tv per mille meraviglie, e Leno solo come quello che faceva battute sgraziate su Monica Lewinsky (esattamente come noialtri a casa).
Quindi quel che avrei dovuto imparare dal libro di Bill Carter era che certe vittorie sono apparenti, e certe sconfitte anche, e che i conti si fanno alla fine – ma era troppo presto per capirlo. Ed ero troppo distratta dai soldi.
L’asta per i servigi di Letterman, che non voleva restare alla Nbc a fare il programma di mezzanotte e mezza mentre a Leno andava la più prestigiosa collocazione delle undici e mezza, raggiunse cifre che la me poco più che ventenne traduceva in lire, trasecolando. Quindi ha detto di no a questo contratto da cento miliardi l’anno. Però alla Cbs gliene hanno fatto uno da trenta – sempre miliardi l’anno. Con la lira faceva molta più impressione di quanta ne farebbe oggi con l’euro – ah, vabbè, gli danno quindici milioni, mi pare equo.
(Lo shock era accresciuto dagli orari. Nel Novecento l’Italia era un paese civile in cui la seconda serata iniziava alle dieci e mezza, cos’era tutto quell’agitarsi per un programma notturno, chi mai stava davanti alla tv accesa a mezzanotte passata?).
L’anno dopo mi fecero un contratto per un programma televisivo italiano, e la miseria che mi davano per comparire nel prestigioso punto dei titoli di testa che diceva «un programma di» mi aiutò a capire che “The Late Shift” era un libro di fantascienza, che parlava d’un altro universo (la miseria era comunque più di quanto meritasse la me ventitreenne che non sapeva trovarsi il culo con le mani: sono tuttora incredula che mi pagassero).
Adesso, che figurarsi se leggiamo un libro ma il tempo per guardare sei ore di documentario lo troviamo sempre, la Cnn ha prodotto “The Story of Late Night” (in Italia lo trasmetterà Sky, non si sa ancora quando), che è sempre opera di Bill Carter ma amplia la questione: tutto quel che è successo da quando la Nbc ha deciso che in tarda serata si potevano fare soldi, negli anni Cinquanta, a oggi, che quell’inetto di Jimmy Fallon ha completamente sputtanato il marchio, ma per fortuna sulle altre reti generaliste ci sono Colbert e Kimmel (oltre a quelli sulle reti a pagamento, che nessuno guarda ma che vincono tutti i premi).
La cosa più interessante, come sempre, sono gli inciampi. I primi tentativi, gli sforzi di trovare un linguaggio, le cravatte.
L’inciampo del 1957, quando – dopo aver per qualche anno tentato di capire come fare della tarda serata il punto di riferimento televisivo che è ora – la Nbc decise di provare a cambiare: non più comici, ma giornalisti. L’esperimento durò pochissimo, ma abbastanza da far diffondere una battuta: “America After Dark”, si diceva, è così brutto che la gente va a casa dei vicini a spegnere la televisione.
L’inciampo del 1960, quando Jack Paar – il predecessore di Johnny Carson – si alzò dalla scrivania e se ne andò in diretta, offeso perché gli avevano censurato uno sketch basato su un gioco di parole tra la chiesa e il gabinetto. Le sue ultime parole, alzandosi, furono «deve pur esserci un modo migliore di guadagnarsi da vivere». Lo supplicarono di tornare per un mese. Tornò. Le sue prime parole furono «stavo dicendo prima che m’interrompessero che mi chiedevo se ci fosse un modo migliore di guadagnarsi da vivere: ho scoperto di no».
L’inciampo che forse non fu un inciampo, quando Carson, a metà degli anni Settanta, decise che il montaggio col meglio delle sue puntate settimanali non sarebbe più stato trasmesso il sabato, ma il lunedì, così da poter lavorare solo quattro giorni a settimana e il lunedì giocare a golf.
Non mi viene in mente neanche un conduttore che oggi chiederebbe a una rete di lavorare una sera in meno, col terrore di perdere terreno che caratterizza la tv di questo secolo. Eppure, quando i conduttori erano meno smaniosi di proteggere il loro orticello televisivo, la tv era molto più importante. Vedere i comici che rievocano il loro primo monologo da Carson, e come quelli fossero i cinque minuti che ti cambiavano la vita, è – di nuovo – fantascienza: oggi non esiste un posto in cui cinque minuti possano cambiarti non dico la vita ma anche solo un anno di 740.
Fu per far giocare Carson a golf che s’inventarono il Saturday Night Live, e nel documentario Conan O’Brien dice che è difficile spiegare alle nuove generazioni che rivoluzione rappresentasse il fatto che al SNL nessuno aveva la cravatta. Mentre lo guardavo m’è venuta in mente un’analisi di Andrea Minuz sul Foglio secondo la quale Valerio Lundini ha fatto un programma di successo perché era vestito come un funzionario ministeriale, e il pubblico Rai quello vuole da te: la cravatta. Il che forse è vero, ma c’è il dettaglio che Lundini non ha fatto un programma di successo, se non forse secondo i giovani smaniosi che invocano «nuove metriche» per misurare il successo televisivo.
Nuove metriche che non si sa quali dovrebbero essere. I quaranta gatti che lo rivedranno su RaiPlay? I quattro gatti che ne faranno cancelletti e gif e tendenze su Twitter? Tutto bello, tutto moderno, tutto infernale (nel senso jonimitchelliano di «hell’s the hippest way to go»), ma: nulla con cui si facciano soldi.
I soldi si fanno ancora con la pubblicità che metti dentro al programma mentre il programma va in onda. I soldi li fai se qualcuno ti guarda dentro al televisore all’ora giusta, come nel Novecento. La faida tra Leno e Letterman, trent’anni fa, era basata sul fatto che la Nbc voleva Leno perché, le sere in cui Carson non c’era e Leno lo sostituiva, c’era un pubblico più giovane, e quindi più pubblicità.
Adesso che i giovani non hanno i soldi neanche per la ricarica del cellulare, la tv devi venderla ai vecchi (che la guarderanno interrotti dai figli che chiedono «a ma’, me fai la ricarica?»).
Certo, poi i vecchi muoiono (quando cominciai a lavorare a RadioRai, negli anni Novanta, la cosa che ti dicevano tutti i dirigenti era «dobbiamo rinnovare il pubblico: i vecchi muoiono»). Ma tanto vale rilassarsi: di cosa andrà in onda quando saremo tutti morti si occuperanno i nostri figli (quelli cui intanto dobbiamo fare la ricarica).
Le vittorie apparenti, quindi, e le sconfitte altrettanto. E questo era il mio editoriale sul dibattito più noioso delle ultime trecento ore: quello sugli ascolti del programma di Alessandro Cattelan.