Suono mediterraneoLa musica di Anouar Brahem cambia sempre e ogni volta si ripete la magia

Il maestro tunisino dell’oud nei suoi undici album ha dimostrato di non essere solo tecnicamente straordinario, ma anche un innovatore che da trent’anni segue un percorso di contaminazione fra tradizione etnica, classico arabo e jazz. Read&Listen

Re Sol Re La. Re Sol Re Si bemolle. Sono le due quartine di note, un breve intervallo in mezzo, che salgono lentamente, scandite, dalle corde pizzicate di un basso elettrico, e rimangono sospese nel silenzio. Poi, un clarinetto basso soffia vita dal profondo, e infine l’oud di Anouar Brahem ti accoglie con delicatezza, mentre la porta si apre su questo misterioso, affascinante album. Musica poeticamente evocativa di emozioni e paesaggi, atmosfere e sonorità mediterranee.

Per me, il suono dell’oud, questo liuto a forma di pera, il manico corto e angolato, senza tasti, le cinque corde doppie più una – suonate con un plettro generalmente di legno flessibile (da quello sembra derivi il nome) – che creano una risonanza naturale dolce e piena che sazia l’orecchio e lo spirito, è il suono del Mediterraneo. La sua origine è probabilmente più ad Est, forse nella notte dei tempi in Mesopotamia, evoluzione del barbat, strumento persiano e arabo pre-islamico. Nel tempo, ha viaggiato in molte direzioni, valga per tutte quella europea: il liuto è lo strumento principe della musica di corte rinascimentale. Ma la sua versione cubana, il laud, lo troviamo nelle mani di Barbarito Torres nel Buena Vista Social Club.

Quando lo sento, per me è casa. Non quella che attraverso la musica ci siamo cercati su coste lontane, in metropoli affollate meliforme o in capitali swinganti del Nord. Neanche su spiagge caraibiche o in fetes equatoriali. È la vera casa. Mi evoca all’istante il mare nostro, il sole pieno o l’ombra degli olivi, il dondolìo delle barche all’ormeggio, lo sciacquare delle onde, i cafè sulla spiaggia o al porto, vino e profumi e sapori che ci accompagnano da secoli.

Più rotondo e ricco di eco rispetto alla chitarra classica, l’oud è un dono, e chi ne possiede i segreti è, prima di tutto, un poeta. Anouar Brahem è quel tipo di artista. Non solo un musicista tecnicamente straordinario, ma un innovatore che da trent’anni segue un percorso personale e originalissimo di contaminazione fra tradizione etnica, musica classica araba e jazz: undici album finora, con collaboratori diversi in ognuno, ogni viaggio in una direzione e con un’ispirazione diversa. Ogni volta cambia, e ogni volta si ripete la magia. Difficile sceglierne uno sopra tutti, sono tutti preziosi, ma questo mi ha toccato il cuore più di altri, perché la storia degli occhi di Rita è bellissima e struggente, emblematica e fatta di amore e dolore.

Nato a Halfaouine nel cuore della Medina di Tunisi, Anouar da bambino ascolta la radio e sogna la musica, e fin da piccolo è incoraggiato dal padre, stampatore e incisore, a intraprendere studi musicali. Lo iscrive a dieci anni al Conservatorio Nazionale dove il figlio incontra un maestro, Ali Sriti, con cui continua a studiare da privato per un lustro. Ben presto Anouar si rende conto che l’oud «non è uno strumento che si può imparare solo studiando», come ha detto a Downbeat, «devi ascoltare e fare pratica con altri musicisti, imparare a improvvisare».

Allora aggrega altri musicisti nordafricani per formare i takhts, gruppi tradizionali di musica araba dove l’oud si affianca al kanun (cetra a 78 corde), al ney (il flauto mediorientale), al violino e a varie percussioni. “Di base ero molto focalizzato sulla musica araba tradizionale, ma un po’ alla volta ho cominciato a interessarmi a tutta la musica del Mediterraneo, e anche a quella proveniente dall’Asia”.
La musica dominante del periodo a Tunisi è rivolta soprattutto all’intrattenimento, orchestre da matrimoni e da ballo, e comunque con un’enfasi sulla parte cantata, con l’oud relegato in secondo piano nell’impasto sonoro delle orchestre.

Anouar sceglie invece di non inserire nella sua musica parti cantate, ma piuttosto di restaurare il ruolo centrale che aveva l’oud nella musica araba. Si distanzia dal repertorio tradizionale, e partendo da “bravo interprete della musica classica araba” matura in un compositore che dal vivo presenta i suoi brani, e all’inizio degli anni ‘80 i suoi primi concerti di musica, solo strumentale, sono controcorrente. Il destino degli innovatori: alcuni lo guardano con sospetto perché troppo lontano dalla tradizione, altri lo accolgono positivamente perché sono in cerca di qualcosa di nuovo nella musica araba.

La sua destinazione ostinata e contraria presto si amplia ancor di più con altre influenze, questa volta provenienti dall’Europa e dal jazz: compositori d’avanguardia come Pierre Boulez e Karlheinz Stockhausen, le sonate per piano dei musicisti di inizio secolo come Eric Satie, Maurice Ravel, Claude Debussy. Ma anche – e in fondo la distanza con questi ultimi non è grande – il pianoforte di Keith Jarrett.

A Derk Richardson del SFGate nel 2002 ha detto: «È stato uno shock per me. Quando ho ascoltato “Facing You”, e poi il “Koln Concert”, ho percepito qualcosa di molto vicino alla mia sensibilità. Mi hanno toccato profondamente. Alcuni dischi di jazz come quelli di Jarrett, Miles Davis, Bill Evans mi hanno aperto la porta. Ma io non volevo essere un jazzista, sono un suonatore di oud e non volevo imitarli. Il jazz non è la mia cultura, ma come musicista tunisino, arabo, sono stato influenzato dal loro spirito».
Non era tanto l’estetica jazz che lo faceva sentire vicino a Jarrett, ma piuttosto la naturalezza del sentire nella sua musica «improvvisazioni modali andaluse. Come fosse un musicista orientale, anche se lui probabilmente non sarebbe d’accordo».

A 23 anni, già ben conosciuto in patria, non se ne accontenta e lascia il suo paese per Parigi, in cerca di nuove esperienze che possano ampliare la sua visione musicale: «Non era facile, in quegli anni. Ora va di moda suonare con i jazzisti, ma allora no. Era un recinto chiuso. Consideravano quello che facevo bizzarro». Rimane a Parigi diversi anni, prima lavorando come autore di colonne sonore per film e rappresentazioni tunisine, poi collaborando col grande Maurice Bejart e il suo Ballet du XXe Siecle in Thalassa/Mare Nostrum, che riceve il prestigioso Premio Nazionale di Eccellenza Musicale.

Poi ritorna in patria, dove nel 1985 forma i Liqua 85, un gruppo di musica mista etnica e jazz -quella che presto si chiamerà “world music” – con musicisti francesi, tunisini, turchi con cui suona al Festival Internazionale di Cartagine, evento culturale di grande rilievo in Tunisia, e col quale vince il Gran Premio Nazionale della Musica conferito dal Governo.

È ormai uno stimato musicista contemporaneo con il bagaglio prezioso di una conoscenza profonda della storia della musica del mondo arabo, e gli viene affidato per quattro anni il ruolo di direttore del Music Ensemble di Tunisi, dove patrocina performance sia tradizionali che sperimentali.

All’inizio degli anni ‘90, finalmente si potrebbe dire, decide di focalizzarsi su una carriera solista. Incontra Manfred Eicher, il patron della Ecm, e per l’avventuroso musicista che ha già incorporato elementi di jazz nella sua fusione di antico e moderno si aprono le porte della migliore etichetta possibile per chi vuole trovare strade e sonorità inusuali, mischiando jazz ed etnico senza pressioni commerciali e con qualità sonora sublime.

Sempre sofisticati e ancestrali insieme, sono album strumentali eleganti ed evocativi, a volte meditativi a volte trascinanti a volte volanti come un tappeto magico dalla destinazione ignota. C’è sicuramente una scrittura attenta, ma si percepisce anche l’improvvisazione fra i musicisti, il tono è sempre caldo, la tecnica sopraffina; anche se Brahem, considerato uno dei suonatori migliori al mondo, come è giusto che sia sostiene che «l’intensità e la sincerità sono gli aspetti più importanti della mia performance. Cerco il meglio per me dentro la musica. Al pubblico non interessa l’esibizione della tecnica fine a sé stessa».

La sequenza degli album, undici, è davvero sorprendente, sembrano le stazioni, le tappe di un viaggio alla scoperta delle possibilità insite nella musica mediterranea. Radicati nella tradizione araba, ma allo stesso tempo moderni, persino avanguardistici da una prospettiva maghrebina.

“Barzach” è il primo, 1991, con il turco Lassad Hosni alle percussioni e il tunisino Bèchir Selmi al violino. In “Conte de l’Incroyable Amour”, l’incredibile storia dell’amore, ha con sé i celebri Kudsi Ergoner al ney e Barbaros Erkose al clarinetto, e Lassa Hosni al darbouka (tamburo chiuso a forma di clessidra) e bendir (aperto, di forma circolare). In “Madar” si viaggia ancora più lontano, con il norvegese Jan Garbarek ai sax e Ustad Shaukat Husssain, indiano, alle tabla.

In “Khomsa “ c’è un settetto, dalla fisarmonica di Richard Galliano alla ritmica pienamente jazz di Palle Danielsson al contrabbasso e Jon Christensen alla batteria, più di nuovo Selmi al violino, e in aggiunta un piano e un sax.

Il successivo “Thimar” è una straordinaria fusione di classico arabo e avanguardia jazz, con Dave Holland al contrabbasso e John Surman al sax e clarinetto basso. In “Astrakan Cafè” rincontra le percussioni di Hosni e il clarinetto di Erkose: altro album prezioso, «musica profondamente personale, senza tempo. Sarebbe una musica tradizionale», han recensito su All Music, «se una tradizione così originale, anche se adattata da molteplici fonti di ispirazione, esistesse per davvero».

E infine nel 2002 l’incantevole “Le Pas Du Chat Noir”, mio biglietto d’ingresso nel suo mondo, in cui il pianoforte e la fisarmonica dipingono i brani con armonie che sanno di Rive Gauche e di bistrot parigini, ma anche delle antiche strade di Cartagine.

Le Chat Noir era il caffè parigino frequentato da Satie e Debussy, e l’album rivela l’influenza e il mix delle antiche musiche arabe con la musica da camera e le sonate per pianoforte dei due. È musica che guarda indietro, come suggerisce la foto di copertina del 1928 del Jardin des Tuileries di Parigi, ma è davvero senza tempo.

Poi, i dischi si sono un po’ distanziati. Nel 2007 “Le Voyage de Sahar”, sempre su All Music, viene raccontato così: «Composizioni ingannevolmente semplici che si aprono a un mondo segreto dove la bellezza è così presente da essere quasi inavvicinabile»; il doppio con orchestra “Souvenance” nel 2015, ispirato dalla Primavera Araba in Tunisia, non un commentario in musica ma sicuramente inciso in uno stato emotivo che la rifletteva. Infine nel 2017 “Blue Maquams”, forse il più jazzato di tutti, altra meraviglia incisa con la leggendaria ritmica di Dave Holland e Jack De Johnette, e al piano l’inglese Django Bates. In mezzo a questi, nel 2009, “gli occhi stupefacenti di Rita”.

Anche qui il gruppo è multinazionale, e condividono con Brahem il gusto per una panoramica vasta di influenze e interessi: il tedesco Klaus Gesing ha studiato prima in vari Conservatori e poi con Dave Liebman, ha pubblicato con il pianista italiano Glauco Venier cinque album fra cui “Distances” è stato nominato per un Grammy, ha suonato nel trio della vocalist inglese Norma Winstone, ha partecipato a “Souvenance” e al di là del clarinetto basso, strumento sempre più diffuso negli ultimi anni, suona il sax e ama sperimentare con l’elettronica.

Al basso elettrico a sei corde c’è lo svedese Bjorn Meyer, cresciuto ascoltando musica cubana e flamenco prima di interessarsi al folk della sua madrepatria: ha collaborato con una arpista persiana, Asita Hamidi, ha fatto parte di un collettivo rituale che ha dato forma al termine “zen funk” e ha creato dopo “The Astounding Eyes of Rita” un trio con Gesing e il batterista Samuel Rorher.

Infine il percussionista libanese Khaled Yassine, presentato a Brahem dalla nuora, la coreografa Nawel Skandrani, anche lui radicato nella musica tradizionale ma aperto a contesti diversi proprio per il suo lavoro nel mondo della danza. Ha fra e sotto le mani i due tamburi di sempre, il darbouka e il bendir, che insieme al basso spingono su dei groove che non sono funky nel senso tradizionale, ma muovono la musica molto più che in altri episodi precedenti, quasi da camera, di Anouar. Sono tutti solisti straordinari nel loro, vengono tutti dall’entourage ECM e – come ogni volta, la storia si ripete – perfettamente affiatati con Brahem.

È proprio Manfred Eicher, che alla ECM non è solo il visionario strategico ma spesso anche produttore e tecnico del suono, a suggerire i musicisti a Brahem: «Manfred sapeva, per la passata esperienza con John Surman su “Thimar”, che amo la combinazione di clarinetto basso e oud, sembrano strumenti nati uno per l’altro. Ha organizzato delle prove con Klaus a Udine, (dove negli studi Artesuono è stato poi registrato il disco), il potenziale era evidente, ma solo durante le registrazioni ci siamo ritrovati tutti insieme e abbiamo cominciato a suonare come una band. Prima avevo suonato con ognuno separatamente».

Laddove “Les Pas Du Chat Noir” era stato composto principalmente al pianoforte, “Rita” nasce direttamente sull’oud. «Quando compongo la musica la mia focalizzazione è sull’universo melodico. Le idee per strumenti e arrangiamenti vengono dopo. Mentre scrivevo pensavo a strumenti caratteristici del Medio Oriente come il darbouka, e al basso. C’è voluto un po’ per trovare la giusta combinazione di strumenti e personalità, ha detto a worldmusiccentral.org: «Mentre posso trovare facilmente musicisti straordinari in Tunisia, spesso mancano di quelle qualità essenziali che possiedono i jazzisti europei, come maggiore libertà mentale e la capacità di improvvisare».

“The Astounding Eyes Of Rita”, però, non è solo un titolo bello ed evocativo, come la foto di copertina. L’album, e questo non fa che aumentare la sua profondità e arricchire la sua essenza, è dedicato al poeta palestinese Mahmoud Darwish, una figura di enorme influenza e rilievo nel mondo culturale arabo. Darwish, il cui cognome evoca il misticismo sufi, ha scritto più di venti raccolte di poesie, alcune di emotività e bellezza da mozzare il fiato, altre di struggimento che feriscono il cuore e anche la carne, perché molte sono dedicate alla drammatica realtà del suo Paese. Fra queste, “Rita e il Fucile”, una storia vera.

Darwish nasce in Galilea nel 1941, e quando nel 1948 gli israeliani a cui viene assegnato dai trattati internazionali il territorio conosciuto fino ad allora come Palestina impongono la Nakba (‘la catastrofe’ in arabo), la deportazione forzata di oltre mezzo milione di palestinesi residenti in quei territori, Darwish si trasferisce con la famiglia in un campo profughi in Libano.

Qualche tempo dopo tornano illegalmente nei luoghi di origine, anche se il suo villaggio al-Birwa è stato totalmente raso al suolo. La sua condizione, un arabo nello Stato di Israele, ‘alieno’ senza identità nazionale, è precaria, e segnerà tutta la sua produzione artistica, che racconta la condizione dolorosa dell’esilio. I sentimenti di questa tragedia personale e generazionale, riferimento collettivo per la causa palestinese, Darwish li mette in versi in quella che è una delle sue poesie più famose, “Carta di Identità” (o “Il Passaporto”):

«Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
Prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Prestate attenzione!
Prestate attenzione!
Alla mia collera
Ed alla mia fame!».

Darwish cresce, studia, diventa un ragazzo colto col dono della parola, che non è solo quella scritta. Gira di villaggio in paese, leggendo i suoi scritti e incappando nelle proibizioni e arresti da parte degli israeliani. In particolare, la Carta d’Identità diventa una canzone della Resistenza, e per questo viene mandato in prigione. Tutta la sua vita sarà un esilio forzato (in Egitto, Unione Sovietica, Cipro, Giordania, Francia), solo nel ’96 – eletto membro dell’Autorità Nazionale Palestinese – avrà il permesso per poter tornare a incontrare i genitori.

Prima che lo scontro fra israeliani e palestinesi non si accenda irrimediabilmente con la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, sono anni in cui una convivenza è possibile, anche se in bilico. A metà degli anni ‘60 ad Haifa, lui arabo, conosce una ragazza israeliana, e si innamorano.

Come viene raccontato in una pagina toccante su sentieristerrati.org, lei si chiama Rita, a volte solo «la straniera». È un amore travolgente, che Darwish dipinge nella poesia contenuta all’interno dell’album, “Rita and the Rifle”. Un amore fatto di passione, di tenerezze, e come nella peggiore delle favole interrotto per sempre quando lei viene richiamata alle armi: «Immaginate la vostra donna che arresta i vostri compagni a Nablus o a Gerusalemme. Né il cuore né la coscienza potrebbero sopportare questa immagine». È una realtà struggente, in cui l’amore per la propria terra e per la propria donna si intrecciano e diventano metafora una dell’altra. Si lasciano, fra di loro la guerra, simboleggiata da un fucile:

«Fra Rita e i miei occhi
C’è un fucile.
Chi conosce Rita
Si inchina e prega
La divinità nei suoi occhi di miele.
Io ho baciato Rita
Quando era una bambina
Ricordo come si appoggiava a me
E come il mio braccio copriva
La più bella delle trecce.
Ricordo Rita come un passero
Ricorda il suo ruscello
Ah, Rita
Fra noi ci sono un milione di passeri e di immagini
E molti appuntamenti
Su cui ha sparato un fucile.
Il nome di Rita era una festa nella mia bocca
Il corpo di Rita come un matrimonio nel mio sangue.
Mi sono perso in Rita per due anni
E per due anni ha dormito sul mio braccio
E ci siamo fatti promesse
Davanti alle coppe più belle
E siamo bruciati al sapore del vino sulle nostre labbra
E siamo rinati.
Ah, Rita!
Cosa, prima di questo fucile, avrebbe mai potuto allontanare i miei occhi dai tuoi
Tranne un pisolino o le nuvole color miele?
Una volta il silenzio della notte
Al mattino la mia luna migrava in un luogo lontano
Verso quegli occhi di miele
E la città ha cancellato via tutti i cantanti
E Rita.
Fra Rita e i miei occhi
Un fucile».

Questa poesia, che è stata anche messa in musica da un cantante amico del poeta, Marcel Khalifa sarà anche il tema portante di un documentario del 2014 – Darwish ormai scomparso da sei anni dopo l’ennesima operazione al cuore, a Houston – nel quale si svelerà che la donna di cui era innamorato era ebrea, e lei si presenterà con il suo vero nome, Tamar Ben Ami.

Il brano “Astounding Eyes of Rita” si apre con un oud svisato accompagnato da un canto discreto che riporta alle atmosfere di “Creuza de Ma”, che di questo disco è cugino mediterraneo, prima che il basso cominci a muoversi e tutto si faccia evocazione, scansione, tensione.

Ci pensa l’oud, in primissimo piano, a raccontare una storia malinconica, sofferta,
che il clarinetto e la vocalità rinforzano. Gli strumenti si alternano e susseguono, come voci che raccontano parti diverse dello stesso racconto, il clarinetto che piange e ulula e strappa via con la potenza di un sax free. Alla fine tutto si placa, lasciando il finale sospeso, forse ancora da scrivere, o forse solo rassegnato.

“Dance With waves” è, come implica il titolo, un muoversi morbido, sensuale, un rincorrersi circolare che termina e riprende di continuo, come le onde.

In “Stopover At Djibouti”, la più trascinante, la linea ritmica di basso e darbouka si muove sinuosa, contrappuntata dal clarinetto, finché l’oud non prende la linea melodica insieme al clarinetto stesso. C’è un clima colorato, sembra vedere persone che si muovono, il viaggio che arriva a destinazione ed è pronto a ripartire, mentre l’oud improvvisa su una base decisamente funky. Potrebbero essere dei Weather Report unplugged, o una “night in Tunisia” spostata nel Golfo Persico.

Al Birwa è il villaggio che non c’è più, qui non c’è rarefazione, contemplazione, piuttosto rabbia, energia, il darbouka schiaffeggiato veloce, come se si stesse correndo via, in cerca di un riparo. L’espressività delle melodie, dei riff, degli arrangiamenti si rivela come magnifica musica da colonna sonora, e si intende perfettamente come e perché Brahem abbia lavorato – e lavori ancora – per dare atmosfere a progetti visuali, siano immagini o danze.

“Galilee Mon Amour” è un’ode alla terra natìa del poeta, un canto appena accennato che si intreccia con gli strumenti, il clarinetto profondo che crea il mood, e si muove misterioso su sentieri circolari arabeggianti. Si ferma, e riparte l’oud, ed è puro amore, appena si fa rarefatto arriva il tono profondo del clarinetto a riportare tutto a una dimensione terrena, ma poi l’oud fugge di nuovo, come se cercasse il suo sentiero. Il clarinetto riprende la scena, ondeggia nel caos delle percussioni, i sentimenti si accavallano, difficile districarsi, si torna per un attimo al riff iniziale, e si chiude all’improvviso.

“Waking State”, di nuovo echi del De Andrè mediterraneo, è davvero un risveglio, chissà da quali sogni e pensieri. Meditativo, all’inizio, in quello stato fra sonno e veglia che è sovente la cifra di questa musica. “Sidun”, in “Creuza De Ma”, in fondo traeva ispirazione proprio dallo stesso mondo sofferto di Derwish: il dramma di un padre, forse un rifugiato palestinese, che nella città di Sidone in Libano, sede di ripetuti massacri fra il ‘75 e il ‘91, vedeva il proprio figlio martoriato da un carro armato, e procedeva tenendolo in braccio in un grumo di sangue.

La musica di Brahem non ha la viscerale potenza di Fabrizio, non ne ha la struttura e gli strumenti musicali, è più rarefatta, ma c’è senz’altro una radice comune. C’è la stessa evocazione di un popolo, un periodo, drammatici. Il bendir echeggia profondissimo, mentre l’oud lentamente si risveglia e invita ad affrontare la giornata, sia quel che sia.

“For No Apparent Reason” chiude su un tono leggero, del resto così è la vita, anche i momenti più cupi si alternano alla gioia, alla riscoperta di attimi di serenità, di gioco, di scherzo. Gli strumenti giocano, come farfalle impazzite nel sole, entrano ed escono dall’inquadratura dialogando liberi come in una jam che sa tanto di melodia araba e di improvvisazione jazzata insieme. Funky unplugged, il basso a supportare tutto, mentre il bendir spinge e i fiati e le corde dialogano fra loro.

C’è tanto fascino, in questi brani, sentimenti ancestrali e raffinatezze contemporanee. Più che uno stile è un’atmosfera quella che si crea, uno stato d’animo che viene passato dai musicisti a chi ascolta. I volti dei musicisti dal vivo dicono molto: Anouar è sempre composto, ma sereno e catartico dentro, Meyer ha un volto perennemente sorridente, quello che apparentemente se la gode di più; la concentrazione di Gesing e di Yassine emanano serietà e bellezza. Si trovano magnificamente insieme, e si sente.

La musica di Anouar Brahem è visuale, abbastanza aperta per lasciare che la propria mente e fantasia possano trovare spazi di immaginazione. Fluisce senza perdersi, sempre un tono di nostalgia, di malinconia, fossimo in Brasile parlare di saudade non sarebbe fuori posto. Ma è parimenti molto viva, piena di energia positiva, sospesa fra ricordo e speranza, aspettativa. Meditativa, ma mai ferma; contemplativa, ma mai statica. È questo, credo, il segreto del suo fascino.

Musica senza tempo, non del tutto antica, non del tutto moderna, forse di un’altra dimensione, in cui ci si muove con rispetto per l’arte, le persone, il paesaggio, la cultura antica e la scoperta del nuovo. Musica-ponte, ponti invisibili, di cui il Mediterraneo è ricco. È l’eredità di Cartagine, della Fenicia, di Roma e di Atene e Cipro e Palestina, delle sponde dove la civiltà è sbocciata per migliaia d’anni, il melting pot originale, la vera culla del mondo. Il Nostro Mare.

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