Questa è una storia che si identifica pienamente con il motto di John Lennon «la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare altri piani». Perché questo album, 8 milioni di copie in tutto il mondo, best seller di musica cubana di tutti i tempi, rifiutato da ogni etichetta e uscito per una sussidiaria colta della Elektra americana, la Nonesuch (che si occupa soprattutto di musica classica), inizio di una incredibile popolarità per un gruppo di artisti cubani in buona parte vicini agli 80 anni, nasce per puro caso.
Quando Nick Gold chiama Ry Cooder nel 1996, ha in mente un’altra cosa. Sono gli anni del boom della world music, di cui la World Circuit, dove Gold lavora come produttore esecutivo, è una delle etichette più rilevanti: non è ancora di moda quella connection fra la musica africana del deserto e il blues, a Nord, in quel momento storico, si pensa più a quella con la musica cubana più a Sud, i suoi legami con il hi-life della West Africa e con la rumba congolese. Ha contattato una serie di musicisti del Mali, il progetto è di farli suonare con i colleghi cubani, ma agli africani per tempo i visti non arrivano, e il progetto salta (verrà ripreso nel 2010 e si chiamerà “AfroCubism”).
Cooder è un misto di rock star anomala e di etnomusicologo: in proprio ha già pubblicato album che vanno dal country al jazz alla musica hawaiana, ha suonato con gli Stones e Captain Beefheart, scritto colonne sonore (clamorosa quella di ’Paris Texas’) con una capacità di dipingere suggestivi paesaggi sonori da grandi spazi, ha duettato con Vasni Bhatt in India e con Ali Farka Tourè in Mali. Non sopporta lo show business della sua città di Los Angeles, ed è passato a Cuba già una ventina d’anni prima, ripromettendosi di tornare, un giorno.
A Gold e Ry Cooder, che ha accettato con entusiasmo e nel frattempo è arrivato a Santiago de Cuba attraverso il Messico per via dell’embargo USA con la moglie e il figlio percussionista Joachim, non rimane che far buon viso a cattivo gioco, e presentarsi comunque il mattino dopo nello storico studio Egrem, studio di Stato una volta di proprietà della RCA, dove è stata incisa buona parte della musica cubana fin dai tempi pre-rivoluzionari.
Lì trovano un gruppo variamente assortito di musicisti, storici anch’essi, molti dei quali han avuto il loro momento d’oro fra gli anni 40 e 50. Li ha radunati quello che sarà il direttore musicale del progetto, Juan de Marco Gonzalez, leader della band Sierra Maestra, che parallelamente sta curando un altro progetto simile, basato solo su radici musicali appena diverse, le Afro-Cuban All Stars, che uscirà sempre per la World Circuit col nome “A Toda Cuba Le Gusta”.
C’è Eliades Ochoa, cantante ed eccellente chitarrista, leader del suo Quarteto Patria, al contrabbasso Orlando ’Cachaito’ Lopez (nipote di Cachao, colui che ha inventato il mambo), Manuel ’El Guajiro’ Mirabal alla tromba, poi sezione fiati e percussioni. Ci sono anche strumentisti straordinari, come Barbarito Torres, che suona uno strumento a corde simile al liuto europeo, il laùd, e Manuel Galvan, chitarrista per il gruppo di doo-wop degli anni 60 Los Zefiros.
Al piano c’è Rubèn Gonzalez, che non suonava più da anni, ma riconosce subito il vecchio pianoforte della Egrem, nel giro di pochissimo spolvera via la ruggine dell’artrite dalle dita e la trasforma in polvere di stelle, diventando «il miglior pianista che io abbia mai sentito, un incrocio fra Thelonius Monk e Felix the Cat», certifica Cooder. Ha suonato 40 anni prima con uno dei padri della patria della musica cubana, Arsenio Rodriguez, insieme hanno creato i pattern di piano che lasceranno il segno su tutta la futura musica cubana. Vive l’esperienza con un entusiasmo da ragazzino: Nigel Williamson sulla Rough Guide della World Music (libro fondamentale per tutti gli appassionati del genere) ricorda come la mattina fosse il primo a presentarsi allo studio ancora chiuso, e nel tempo che gli altri avevano bevuto il loro caffè aveva già suonato una ventina di brani (Cooder gli aveva dato un registratore a cassette per poi scegliere quali risuonare in gruppo).
Poi si unisce alla truppa anche Compay Segundo, classe 1907, nomen omen perché è stato una leggendaria seconda voce baritonale nei famosi gruppi vocali cubani di tres. È l’anziano del gruppo, un po’ diffidente, ma si accorge che l’atmosfera è buona, e porta al progetto quella conoscenza antica dei ritmi e delle melodie tradizionali ormai perduta. Cooder ricorda: «Appena è entrato in studio, siamo decollati, lui come un pivot al centro. Conosceva le canzoni migliori e come farle, perché le cantava dai tempi della Prima Guerra Mondiale». Compay è il nipote di Ma Regina, una schiava liberata che aveva vissuto fino a 115 anni, da giovane raccoglieva il tabacco nei campi di giorno e suonava nei bar la notte; si era inventato una variazione sulla chitarra tipica cubana, la tres, così chiamata perché è con tre coppie di corde, aggiungendo una settima in Sol, che gli dava una risonanza unica. Cooder ricorda che il suo stile di vita era «faccio l’amore, danzo, canto», e che non amava i balli moderni perché preferiva «danzare vicino alla donna, sentire il suo corpo che dondola ritmicamente sui fianchi».
Il son di sapore campagnolo che apre l’album e ne rappresenta il brano-simbolo, l’ideale sintesi, Francisco Repilado (il suo vero nome) lo ha scritto in tempi recenti, e come sempre offre la sua seconda voce come armonia a quella di Eliades Ochoa. Chan Chan è il protagonista, il testo pieno di sensualità e di desiderio e di ammiccamenti:
«Sto andando dall’Alto Cedro a Marcanè
Poi da Cueto andrò a Mayari
L’amore che ho per te non posso negarlo
Ho l’acquolina in bocca, non riesco a farci nulla.
Quando Juanita e Chan Chan
Erano insieme sulla spiaggia
Come scuoteva il suo sedere
E Chan Chan era eccitato»
Il son è lo stile dominante dell’album, e per certi versi anche la radice da cui parte tutta la musica cubana, sintesi fra le influenze europee e africane. Si è sviluppato in tante forme, da band rustiche e semplici fino ai suoni jazzati delle orchestre newyorkesi di salsa e della sua versione più dura, la timba. Sulla Rough Guide viene tracciato il suo percorso: non si sa esattamente come nasca, ma lo fa nella regione orientale dell’isola, dove basta una tres per comporre canzoni, spesso solo su poche parole ripetute all’infinito, sorte di jam session che possono durare ben più di una canzone. La zona orientale di Cuba ha anche delle influenze francofone, quelle che gli immigranti haitiani (Haiti è appena a poche miglia marine ad est) aggiungono alla mescla fra le radici africane e spagnole.
La sua struttura, sempre condotta dal ritmo di clave, quei due bastoncini di legno che sono la colonna ritmica di tutta la musica dell’isola con il loro ritmo su tre battute brevi, spazio doppio e altre due in sequenza rapida, si è modificata nel tempo. Ai primi versi si è poi aggiunta una sezione, il montuno, nella quale il sonero – la voce solista – improvvisa in un momento di chiamata e risposta del coro.
La musica afro-cubana, apparentemente semplice e fluida, ha in realtà una struttura piuttosto complessa: il clave (spesso suonato dal cantante, o dal metronomo umano del gruppo) setta il ritmo, altre percussioni (come i bongos, le maracas, il guiro, cilindro di ferro ’grattato’) rispondono in contrappunto e creano il poliritmo, il basso anticipa la battuta e le tres creano sopra le armonie.
L’Orchestra con cui ha suonato il pianista Rubèn Gonzalez, quella di Arsenio Rodriguez, è considerata la matrice del suono cubano come lo conosciamo. Nipote di uno schiavo congolese, le sue radici in quei rituali per le divinità che erano portati avanti in famiglia attraverso la musica, è stato lui a modificare ulteriormente la struttura del son, aggiungendo una sezione di assoli improvvisati, la descarga. Negli anni 50, Fèlix Chapottin ha ulteriormente arricchito l’impianto con quegli arrangiamenti di fiati che tanto piacevano alle band di swing americane del periodo.
Il son può diventare anche una musica corale, gioiosa e partecipativa, in cui le voci dei soneros si alternano e interagiscono, come fossero i protagonisti di una rappresentazione. ’El Cuarto de Tula’ parla di un incendio che ha avviluppato la casa di Tula: «Chiamate i pompieri», «trovate dell’acqua», ma è chiaro che sotto sotto si scherza sugli appetiti bollenti della protagonista:
«La camera da letto di Tula è in fiamme,
Si è addormentata senza spegnere la candela
Chiamate Eliades, Carlos e Marco,
Puntillita e i Sierra Maestra
(sono tutti i membri del gruppo che canta)
Ditegli di correre, la camera è in fiamme
È a fuoco, pazzo (Barbarito) Torres,
Che storia!»
La cantano a turno tutti, e c’è un assolo di laùd di Barbarito Torres stratosferico, strumento dietro la schiena come fosse un Hendrix cubano.
Uno degli ultimi ad aggregarsi è Ibrahim Ferrer. In una bella intervista su Uncut di ottobre, Cooder ricorda come nella ricerca di una voce tenorile che possa interpretare i vecchi bolero, i lenti romantici della scuola latina, qualcuno lo menziona: ’lustra scarpe e vende i biglietti della lotteria giù al porto’. Lo invitano, si presenta timido e un po’ imbarazzato, e dice che non canta più da anni. «Sì, ma quando cantavi, cosa cantavi?» Intona ’Dos Gardenias para ti…’, e Cooder pensa «Oggesù, abbiamo trovato qualcosa di vero. Una voce microfonica come quella non la fabbricano più».
Ferrer, classe 1927, è un altro depositario della tradizione dei soneros, i cantanti di son, e la sua presenza sarà uno dei fattori del successo del progetto: ha cantato negli anni 40 con il re della canzone cubana, Beny Morè, prima che il suo stile di canto, morbido e soave, andasse fuori moda. Cooder lo descrive come il «Nat King Cole cubano» e il suo ritrovamento come una cosa che «capita forse una volta nella vita». Arriva poi anche la sua partner femminile, Omara Portuondo, classe 1930, una delle grandi cantanti di bolero: è il genere – diffuso in tutta l’America latina – più romantico e sentimentale, i testi che parlano delle promesse di amore eterno, di desiderio e bramosia amorosa, della perdizione degli amanti infedeli. Ha nella sua struttura musicale sempre tracce di ritmo afro-cubano, ma la discendenza diretta è dal bel canto all’italiana.
’Dos Gardenias’, che intonano insieme questi due leggendari interpreti di un’altra era, lui che le asciuga le lacrime sul palco della Carnegie Hall quando faranno la loro prima tournèe mondiale, sarà uno dei momenti più toccanti del film che Wim Wenders, che aveva già collaborato con Cooder su ’Paris Texas’, girerà sul mondo che ruota intorno a questa pattuglia di artisti improvvisamente riportati in auge – un po’ come era succeduto ai bluesmen delle origini dalla musica rock inglese degli anni 60 – sul finire del loro percorso.
«Due gardenie per te
Con tutto il calore di un bacio
Come quelli che ti ho dato
Baci che non conoscerai mani
Fra le braccia di un altro…»
C’è un altro bolero famoso, ’Veinte Anos’, una canzone di nostalgia di un amore sfiorito, che non potrà più tornare:
«Cosa significa per te il mio amore
Se non mi ami più?
Non dovremmo soffermarci su un amore passato
Ero il desiderio della tua vita, un giorno lontano
Ora che sono storia non sopporto il cambiamento.
Se solo potessimo far si che i nostri sogni si avverassero
Se tu solo mi amassi come venti anni anni fa.
Che dolore vedere il nostro amore allontanarsi
Una parte dell’anima strappata via»
Il terzo bolero contenuto nell’album è ’Y Tu Què Has Echo?’, scritto negli anni 20 da Eusebio Delfin, vecchio amico di Compay Segundo, ai suoi tempi un innovatore che aveva introdotto cambiamenti armonici e ritmici nella struttura del bolero. Insieme a Cooder, Compay sull’album suona uno strumento inventato dal vecchio amico per combinare le caratteristiche della tres e della chitarra classica: l’armonico, una piccola chitarra con sette corde di cui la terza raddoppiata. Il testo è una favola, un albero che parla con infinito amore nei confronti di una giovane ragazza:
«Una giovane ragazza, piena di gioia,
Ha inciso il suo nome sul tronco di un albero
L’albero, toccato nel profondo,
Ha lasciato cadere un fiore ai piedi della giovane.
Sono un albero, triste e commosso,
Tu sei la ragazza che si è avvicinata alla mia corteccia
Terrò sempre con me il tuo amato nome
E tu, cosa ne hai fatto del mio fiore?»
Il senso religioso e di comportamento retto di Ibrahim Ferrer, che nella sua abitazione aveva un altare dedicato a San Lazaro (Babalè Ayè nella tradizione sincretica del culto della Santerìa) traspare in questa sua composizione, ’De Camino A La Vereda’:
«Ascolta, amico
Non allontanarti dal cammino.
Guarda, hai lasciato la povera Geraldina
Per un po’ di divertimento con Dorotea
Tutto è una favola per te,
Ma è solo una facciata
Perché il tuo tempo della resa dei conti arriverà»
E infine, se vogliamo cogliere ancora un altro aspetto del repertorio del Buena Vista Social Club, per il quale Ry Cooder non ha voluto usare alcune canzoni ben più popolari (valga per tutta la guajira ’Guantanamera’), c’è ’El Carretero’, anch’esso una guajira, ovvero una canzone popolare, un lamento campagnolo, a volte considerato il blues cubano. Scritta da Guillermo Portables è cantata da Eliades Ochoa, il suo cappello da cowboy proprio a ricordare il suo sentirsi profondamente campagnolo. Ochoa ha cominciato a sei anni cantando nei bordelli e nei bar intorno a Santiago, diventando poi personaggio fisso nelle famose Casas De la Trova, luoghi ricchi o poveri, grandi o piccoli, dove si suona musica, e chiunque può entrare per una piccola somma. Anche lui come Compay ha una chitarra adattata che raddoppia le corde di Re e di Sol della tres, ed è considerato uno dei migliori chitarristi della scena isolana moderna:
«Sto andando all’incrocio a scaricare il mio fardello
E lì terminerà la mia faticosa giornata
Lavoro senza sosta per potermi sposare
Ed essere un uomo felice
Sono un guajiro e guido un carretto
Vivo bene con la terra
Perchè la campagna è il paradiso
Il più bel posto sulla terra»
E infine, ma l’album ne contiene ancora diverse, uno strumentale, scritto dallo zio di Cachaito, Israel Lopez, che insieme al fratello Orestes aveva imparato a suonare dal padre Pedro. I due fratelli, i veri Re del Mambo, negli anni 30 avevano apportato varianti sincopate sul genere del danzòn, originando quello che sarebbe diventato il mambo, ed è quello che succede in ’Buena Vista Social Club’, con un grande assolo di piano di Rubèn Gonzalez.
L’album e i concerti del Buena Vista Social Club, formazione che negli anni è continuamente mutata, anche per la scomparsa di alcuni dei suoi primattori, sono una capsula del tempo nella quale entrare e farsi riportare indietro. Rappresenta la tradizione, non la musica cubana moderna, va ricordato, che da quei tempi è mutata assai e ancor oggi continua a mutare, seguendo gusti e tendenze più moderne, più giovanili.
Così come i testi, fatti di quella semplicità rurale o sentimentale che il mondo moderno ha ormai smarrito, questo album, ampliato poi nella versione del 25ennale, affiancato da un album di outtakes, “Lost and Found”, dal “Live at Carnegie Hall” del loro tour nel 1998 e dagli album solisti che Ferrer, la Portuondo, Torres, Cachaito, Gonzalez ed Ochoa hanno inciso sulla scia di un successo inaspettato e di proporzioni inimmaginabili, è qualcosa che riporta a un’epoca lontana.
Per amarlo, devi lasciarti trasportare dalla purezza stagionata di questi interpreti, dalla finesse di musicisti eccellenti, da quel senso di musica delle radici che è all’origine di tutto il resto. C’è tantissima melodia, sentimenti a volte struggenti e a volte pieni di doppi sensi, come tutte le musiche etniche, quelle di derivazione africana in particolare.
C’è ritmo, accidenti se ce n’è, ma le danze a cui invitano non sono quelle delle scuole di ballo di adesso, ci si ferma un attimo prima del mambo, del chachachà, della salsa. Sono danzòn, bolero, musica che si suona ancora, ma non per i turisti né per le discoteche. Le incisioni e il suono sono di adesso, lo spirito e gli interpreti quelli di un tempo perduto.
Ma il mondo lo ha abbracciato con il calore e l’affetto che si ha nei confronti di una nonna o di un vecchio zio ritrovato di cui si eran perse le tracce. L’omonimo e pluripremiato film di Wim Wenders mostra, allo stesso tempo, la meraviglia degli europei di Amsterdam e degli espatriati del New Jersey e New York che rincontrano i parenti dati per dispersi, e lo stupore negli occhi di persone che per la maggior parte non avevano mai lasciato l’isola, né avevano certamente mai pensato a sé stessi come star dell’era moderna.
Il simbolo perfetto di tutto questo è il nome stesso scelto per etichettare il progetto, divenuto poi un brand mondiale che resiste nelle decadi, esattamente come le Orchestre Tipique cubane, che nel tempo rimangono gestite magari dal figlio, e poi dal nipote del titolare: cambiano gli interpreti, lo spirito rimane.
Un giorno Compay e Cachaito menzionano a Gold e Cooder questo Buena Vista Social Club, uno di quei ritrovi members only per bianchi e neri segregati, questo per soli neri, in cui prima della rivoluzione di Castro del ’59 i musicisti si ritrovavano per suonare, bere, chiaccherare e più in generale per vivere. Lo cercano, qualcuno gli dice estaba aqui, qualcun altro estaba allà, sulle colline di Habana de l’Este. La verità è che non si sapeva con certezza dove fosse, troppo tempo, troppe bottiglie di rhum e sigari fa.
Era un ricordo, un miraggio, un’essenza, qualcosa che non c’è più, ma che esiste nel cuore di tutti i cubani. Ecco, questi album sono esattamente questo: viaggi nel tempo, ad accoglierti i migliori interpreti di due, tre, quattro generazioni fa, in un luogo mitologico.