«Beati i figli i cui padri furono eroi», dice Pasolini nel commento in forma di diario lirico scritto per il suo documentario “La rabbia” del 1963. Avendolo incrociato qualche volta, nei suoi ultimi anni di vita, so che sapeva, scrivendo queste parole, di andare contro il pregiudizio romantico che risale, in Francia, al primo capitolo della “Confessione di un figlio del secolo” di Alfred de Musset, e che dice più o meno: guai alla generazione di coloro che sono stati concepiti da padri colossali dai «petti sgargianti d’oro» sotto «un cielo senza macchia», dove brillava la gloria delle guerre, della Rivoluzione e dell’Impero!
Guai ai giovani paralizzati da genitori ussari, ulani, cavalieri, che avevano conosciuto Napoleone e che erano tornati a casa coperti di sangue e di fango, trascinando con sé il sentore di tempeste, di uragani, di cavalcate travolgenti e di sconfitte epiche!
Il male del secolo, secondo de Musset, sta nel fatto di essere condannato all’inazione da padri più grandi di lui, di essere ridotto a sognare le nevi di Mosca e il sole delle Piramidi sentendosi ripetere dal mattino alla sera: «Tutte finite, le illusioni e i sogni di grandezza. Ormai rimangono solo soldati a riposo. Fatevi preti!» La forza che gli è stata trasmessa si rivela improvvisamente inutile.
Nel mio caso, però, è Pasolini ad avere ragione.
Ho avuto la fortuna, infatti, di avere un padre doppiamente eroico.
Un padre che, durante la resistenza al nazismo, a metà del maggio 1944, combatté nella Prima divisione francese libera agli ordini del leggendario generale Diego Brosset, all’avanguardia nella campagna d’Italia; e fu tra coloro che si arrampicarono sui precipizi dei monti Faito e Maio per coprire la fanteria polacca, piantare il tricolore in cima a Montecassino e aprire la strada della vittoria alle forze alleate.
In precedenza aveva già combattuto in Spagna nelle Brigate internazionali. Arriva a Barcellona nel luglio 1938, la settimana in cui compie diciotto anni, quasi un bambino; e torna qualche mese più tardi, in seguito alla sconfitta della battaglia dell’Ebro e lo scioglimento della sua compagnia, a combattere nella divisione che resisterà sino alla fine, coprendo la retirada del febbraio 1939.
Se dico che ha ragione Pasolini è perché pensavo a queste imprese quando, nel novembre 1971, normalista abilitato all’insegnamento ma deciso a sganciarmi dagli estetismi professorali e dal destino di fabbricante di libri che allora mi sembrava un vicolo cieco, rispondo all’appello di André Malraux per la costituzione di una Brigata internazionale per il Bangladesh (ho raccontato questo incontro nel mio «Les Aventures de la liberté»).
Dico che ha ragione Pasolini perché, anche se mio padre era piuttosto taciturno, come tutti gli eroi, è a quei due episodi che pensiamo quando, quasi quarant’anni dopo, una domenica, nella casa di campagna di famiglia, gli racconto di avere suggerito al presidente bosniaco Izetbegović di formare una brigata internazionale per Sarajevo e di essermi sentito rispondere: «Lei sa combattere? Sparare? Guidare un carro armato? No! Allora giri un film perché un’immagine, quando è giusta, può valere diecimila fucili».
Al che, dopo copiosi moniti, avvertimenti, ruvidi appelli alle mie responsabilità famigliari, mio padre taglia corto: se proprio si deve fare un film, tanto vale farlo in fretta, bene, con i mezzi necessari, e impegnandomi perché sia all’altezza della mia nuova Catalogna; e decide di produrlo lui stesso, coinvolgendo il suo vecchio rivale François Pinault.
Dopo la morte di mio padre, e anche in alcuni dei reportage raccolti in questo libro, non conto i momenti di stanchezza e di dubbio in cui, anziché essere bloccato dalla temerarietà di quello che de Musset chiamava il «vecchio esercito dai capelli grigi», per farmi coraggio ho recitato mentalmente, come se fossero un filo d’Arianna teso sul vuoto di una montagna curda o di una marcia allo scoperto sul fronte ucraino, queste parole di Diego Brosset scritte sul suo diario di guerra il 19 luglio 1944, il giorno dopo la presa di Montecassino: «L’ambulanziere André Lévy, sempre volontario, di giorno e di notte, qualunque sia la missione, ha assicurato le procedure di evacuazione sotto il tiro dei mortai con un assoluto disprezzo del pericolo, recandosi a più riprese a cercare i feriti tra le linee, sotto il violento fuoco nemico».
da “Sulla strada degli uomini senza nome”, di Bernard-Henri Lévy, La Nave di Teseo, 2021, pagine 176, euro 20