«Radiazioni, zona contaminata. La raccolta di funghi e di frutti di bosco è permessa soltanto con l’apposito rilevatore». I cartelli, attorno a villaggi ancora abitati in Ucraina e Bielorussia, fanno da tragico contraltare a quelli trovati nel Sahara. Non sono molti i viaggiatori stranieri e relativamente pochi i locali nella zona ancora contaminata del deserto algerino. È distante dai centri abitati, non c’è agricoltura o pastorizia. Forse – ma non tutti gli scienziati concordano – quelle radiazioni non costituiscono più un vero pericolo. Il reattore numero 4 del vecchio impianto di Chernobyl, in Ucraina, invece sì. Lo scoppio avvenne il 26 aprile 1986, e il sarcofago costruito subito dopo l’incidente è un colabrodo. Sono stati trovati oltre mille metri quadrati di crepe e buchi dai quali fuoriesce gas radioattivo. Mancano fondi, dicono, per mettere in sicurezza il sito del reattore e la regione contaminata.
Nessuno andava a Chernobyl e dintorni prima del disastro. Né turisti né viaggiatori curiosi. E nemmeno io trovai il tempo di avvicinarmici mentre andavo a caccia delle mie radici. Castiglione cosentino, luogo di nascita di mio padre, è sempre stato accessibile. Chojniki, nella regione di Gomel in Bielorussia, molto meno. Mia madre me ne parlava di tanto in tanto, spronata dalla mia curiosità. Soltanto quando si avvicinava alla fine, si lasciò andare e compresi la sua voglia di non frugare in un passato per lei estremamente doloroso.
Chojniki rappresentava per lei il male assoluto. I pogrom dei cosacchi contro gli ebrei. Le violenze inaudite che precedettero di mezzo secolo l’Olocausto. Intorno agli anni settanta avevo pensato di andare a Leningrado – oggi si chiama San Pietroburgo come prima della rivoluzione russa – a trovare uno dei suoi fratelli. La città dell’eroica resistenza contro i nazisti – quella che, insieme alla battaglia di Stalingrado, consentì agli alleati di armarsi e schiacciare Hitler – era a portata di mano. Altri impegni mi impedirono di fare quel viaggio. E a Chojniki pensai soltanto alla fine del secolo scorso quando stavo ricostruendo la saga dei miei genitori e mia madre, finalmente, raccontò e spiegò perché aveva eretto una barriera intorno alla sua giovinezza.
Purtroppo una barriera nuova sconsigliava di viaggiare alla scoperta delle sue origini. Nel 1986 il villaggio, ormai città, aveva subito fortissime ondate radioattive a causa dell’incidente nucleare di Chernobyl, al di là del vicino confine. Seppi, allora, che molti suoi abitanti furono ospitati in Italia, in centri specializzati per monitorare gli effetti delle radiazioni. Non era il caso di avventurarsi da quelle parti.
Nel 2021, trentacinque anni dopo il disastro nucleare più grave della storia, i suoi effetti sono ancora riscontrabili e gli scienziati sono sempre preoccupati per il comportamento inspiegabile del reattore che, improvvisamente, ha segnalato un’«anomalia» da non trascurare. Radiazioni e paura non fermano orde di turisti alla ricerca di nuovi orizzonti da visitare.
La fortunata serie televisiva del 2019 ha fatto da ulteriore promotore. Nella zona intorno all’ex impianto sono ancora presenti le radiazioni. Soprattutto, ma non soltanto, nella cosiddetta «foresta rossa», una delle località più radioattive della Terra. Qui, a mezzo chilometro dalla centrale, quasi tutte le piante furono distrutte e quelle ancora in vita sono diventate marrone‐rosso. Con l’uso dei droni, il National Centre for Nuclear Robotics (Ncnr) britannico sta conducendo una mappatura delle radiazioni in tutta la regione, soprattutto nella zona di esclusione, o zona di alienazione: 2600 chilometri quadrati che nel 2020 sono stati colpiti da un incendio che ha costretto centinaia di vigili del fuoco a intervenire per impedire che le fiamme arrivassero alla centrale con la sua cappa di cemento.
Gli scienziati cercano di non entrarci se non è strettamente necessario. I turisti sono più coraggiosi. Brevi periodi, insistono le agenzie di viaggio che organizzano tour giornalieri, non sono rischiosi. L’esperienza, dicono, in termini di rischio sarebbe come sottoporsi all’equivalente, al massimo, di un paio di esami radiologici in due giorni. Sarà. Nel 2018 circa settantamila turisti hanno visitato la zona. Si entra e si esce da una specie di checkpoint dove vengono misurate le radiazioni nel corpo grazie a un rilevatore da tenere sempre appeso ai vestiti. Un altro punto di controllo è a metà del percorso. Serve, sicuramente, e offre al turista il brivido del pericolo e dell’avventura.
I visitatori, ammoniscono quelli della Cernobyil tour, non devono toccare le strutture o le piante. Non possono portare a casa come souvenir oggetti della zona. Non si possono sedere. Non possono appoggiare a terra le macchine fotografiche o altri equipaggiamenti. Coprirsi bene è consigliato: non tanto contro le radiazioni, ma per le zecche che proliferano, insieme a molte specie di insetti e animali scampate all’esplosione e al fall out successivo.
I commenti di chi ci è andato passano dal «curioso» al «tragico». «C’è chi sostiene che il tour sia macabro, ma per me è un modo per capire la devastazione che l’uomo sa fare» scrive un’entusiasta su TripAdvisor. C’è il monumento agli eroici pompieri, la visita al villaggio abbandonato di Zalissya, alla cittadina, anche quella abbandonata, di Pripyat e al sarcofago che ricopre i resti del reattore numero 4. «Straordinarie le photo opportunity» racconta un altro viaggiatore che si sarà sicuramente immortalato con una valanga di selfie. Unico suo problema: «Il cibo fa schifo».
Chojniki dista da Chernobyl un’ora e mezza in auto: centosedici chilometri secondo la cartina di Google Maps, molto meno in linea d’aria, attraversando la Polesie State Radioecological Reserve, una vasta aria, diciamo protetta, dove una guida locale suggerisce: «È un luogo molto interessante in cui la natura ritrova ciò che l’uomo aveva portato via. Con un po’ di fortuna puoi vedere rare specie di animali con i tuoi occhi. Raccomando di venire a visitarlo, prima che i turisti lo invadano».
Di chi c’era e non c’è più si parla poco. Soprattutto in Bielorussia, dove le autorità hanno creato una delle più grandi riserve naturali nella zona evacuata e dove abitavano oltre 22 000 persone in 96 insediamenti, compresa quella da dove buona parte della famiglia Esbinsky, quella di mia madre, era emigrata un centinaio d’anni fa per fuggire ai pogrom per poi dividersi, una parte combatté nella Rivoluzione russa l’altra lasciò tutto e scappò negli Stati Uniti. C’è poco turismo in Bielorussia. Anche perché si parla tanto di Chernobyl ma i venti, all’epoca dello scoppio, portavano verso nord. E la regione di Gomel, soprattutto l’area a sud di Chojniki, ne mostra i segni e altri ne nasconde. La vegetazione e la terra sono coperte da macchie rossoviola, indicanti una contaminazione assai poco compatibile con la salute e la longevità della vita. Del resto, scrivono gli scienziati e non i turisti che ci sono stati, lo stesso si può dire della zona che, partendo da Gomel, si allunga fino ai limiti settentrionali e orientali della regione.
L’intera Bielorussia fu colpita, ricorda il sito della Farnesina. «In caso di lunga permanenza, si tenga presente la possibilità di contaminazione radioattiva sia [in generale] attraverso il cibo e le bevande, sia nelle zone colpite». Le avvertenze sono chiare: evitare in particolare i funghi e, in generale, i prodotti della terra. Evitare, ovviamente, l’acqua della rete idrica pubblica.
Nessun avvertimento particolare per l’Ucraina. Le zone attorno al reattore sono contaminate e segnalate, ma evidentemente il fatto che la nube radioattiva sia andata a nord aveva lasciato indenne buona parte di questo paese, dove guerra civile e scontro con la Russia costituiscono l’unico vero motivo, oggi, per circolare con cautela o addirittura evitare di andarci.
da “Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati”, di Eric Salerno, Il Saggiatore, 2021, pagine 232, euro 22