Il primo ottobre il presidente di El Salvador, Nayib Bukele, ha annunciato via Twitter la prima estrazione di Bitcoin nel suo Paese. L’ingresso del piccolo Stato centroamericano nel settore delle criptovalute rappresenta un potenziale turning point nella storia dei Bitcoin: la prima estrazione nazionale – in uno Stato che da settembre ha legalizzato i pagamenti con questa criptovaluta – è stata fatta attraverso l’energia geotermica sprigionata da un vulcano locale.
È la prima volta che si realizzano Bitcoin in questo modo ed è un’ottima notizia soprattutto per il pianeta. Le criptovalute e la tutela dell’ambiente sono sempre stati considerati antitetici. Non è un mistero che l’attività di realizzazione di Bitcoin e altre valute simili, il mining, richieda il lavoro di computer molto potenti, quindi anche un grande dispendio di energia. E lo stesso vale per il sistema di blockchain su cui poggiano le criptovalute per garantire la loro sicurezza.
Per provare a misurare l’impatto ambientale dei soli Bitcoin, nel 2019, il Cambridge Centre for Alternative Finance (Ccaf), un ente di ricerca dell’Università di Cambridge, ha creato il “Cambirdge Bitcoin Electricity Consumption Index”, un indice che stima in tempo reale l’utilizzo di corrente elettrica per le attività di mining in tutto il mondo.
Ad oggi la rete delle criptovalute utilizza energia elettrica a un ritmo di 99 terawattora all’anno, meno di quel che serve per estrarre l’oro, ad esempio, ma più di una nazione come il Kazakistan o le Filippine. E ovviamente nel calcolo dell’Università di Cambridge ci sono soltanto i Bitcoin, ma nel mondo ci sono circa 2mila criptovalute.
I dati forniti dall’ateneo, ad oggi il punto di riferimento per il calcolo dell’impatto ambientale dei Bitcoin, segnano però un netto miglioramento rispetto al recente passato. Come scrive Cnbc, «i nuovi dati mostrano che la geografia del mining è cambiata drasticamente negli ultimi mesi e gli esperti dicono che questo migliorerà l’impronta di carbonio del Bitcoin».
Per capire in che modo lo spostamento geografico riduce l’inquinamento delle criptovalute bisogna partire dalla Cina. Lo scorso giugno avevamo raccontato che «la Cina sta chiedendo alle compagnie elettriche di non rifornire più le società che vivono dell’attività di mining, per scongiurare l’avverarsi delle stime pubblicate da Nature e quindi di vedere lievitare nei prossimi tre anni le emissioni di gas serra di 130 milioni di tonnellate».
La grande repressione delle criptovalute in Cina della scorsa primavera ha scatenato una reazione a catena nel mondo del mining. Intanto ha messo fuori gioco buona parte della metà dei minatori di Bitcoin del mondo, che operavano in Cina. Ma soprattutto ha reso mediamente più efficienti e green gli impianti di ricerca delle criptovalute.
Lo spiega Alex Brammer di Luxor Mining, un pool di criptovalute creato per i minatori più esperti: «Quella decisione ha portato via, probabilmente per sempre, una grande quantità di impianti tra i più inefficienti dal punto di vista energetico».
Il lavoro di mining può facilmente traslocare, in più è basso margine di guadagno e l’unico costo variabile solitamente è l’energia che viene consumata: tutti gli operatori del settore sono incentivati a spostarsi verso le fonti di energia più economiche su scala globale.
«Per il singolo minatore – scriveva Agenda Digitale in un articolo di luglio – il primo modo per massimizzare i profitti è avere il prezzo della corrente più basso possibile e dotarsi dell’hardware più performante possibile. Per dotarsi di energia a basso prezzo il miner cerca fornitori con cui chiudere accordi vantaggiosi, e la maggior parte delle volte questi attori sono produttori da fonti rinnovabili». Inoltre, alcuni Paesi – come la Mongolia – hanno imposto agli operatori del settore di realizzare Bitcoin e altre criptovalute solo a condizione di utilizzare energia da fonti rinnovabili.
Non è un caso che a livello mondiale il 73% degli operatori faccia uso di un mix di energia composto quasi al 40% da energie da fonti rinnovabili.
Nella scia di questo cambiamento si inserisce anche il progetto della startup italiana Free Seas, che vuole legare una criptovaluta – creata ad hoc, poi scambiabile con altre criptovalute – al finanziamento di interventi di rigenerazione ambientale.
I Coin for Environmental Regeneration (o CfER) saranno emessi nel numero finito di 13 miliardi di token, per evitare gli scherzi dell’inflazione.
«L’iniziativa prevede di definire un sistema digitale di emissione token per il finanziamento di progetti di rigenerazione ambientale, basato sulla quantificazione dell’impatto, l’analisi costi-benefici e una tokenizzazione dei costi», dicono a Linkiesta da Free Seas.
Il rilascio di token darà valore ai progetti in base alla rigenerazione delle aree a rischio. «L’obiettivo – spiegano – è la creazione di un mercato italiano del credito per la rigenerazione ambientale. All’inizio i CfER avranno un valore bassissimo, quasi simbolico, ma che dovranno diventare riutilizzabili, spendibili magari per comprare altre criptovalute».
Inoltre la dimensione green dei CfER si estende anche alla blockchain di riferimento, chiamata Algorand, che già oggi ha un consumo di energia molto più basso rispetto ad altre concorrenti, e ha in programma di diventare a impatto zero entro il 2025 grazie all’uso della sola energia proveniente da rinnovabili.