Mondi lontaniLo stile rancoroso della politica italiana e la tranquilla costruttività di Draghi

La comunicazione del premier e di tutto il governo è impeccabile, mai ridondante, mai aggressiva, diretta e quasi fredda. Diametralmente opposta a quella dei partiti e di un Parlamento che si fa stadio a ogni occasione

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Quando si ascolta una conferenza stampa di Mario Draghi sembra di essere all’Università o a una tavola rotonda: parla, illustra, spiega cose complicate che a sentirle così tutti possono capirle. «Un’idea e la persegue, non persegue voti», ha twittato Francesca Archibugi, la grande regista, ascoltando il premier rispondere ai giornalisti (che davanti al premier sono diventati più seri anche loro).

Un po’ c’entra anche Max Weber, la politica come professione diventa politica come spiegazione, il fare diventa comunicazione. Le parole non sono mai ridondanti, meno che mai puntute o aggressive, nemmeno ironiche. È, quello di Draghi, quel che si dice un linguaggio piano, senza voli pindarici propri di altre leadership della Prima Repubblica (o di Berlusconi venditore “piacione”) né ammantato di quei bizantinismi in po’ vacui che costituivano la cifra di Rocco Casalino travestito da Giuseppe Conte, né noiosamente professorale com’era lo stile di Mario Monti, e meno che mai tambureggiante, eccessivo, come quello di Matteo Renzi.

Dall’altra parte del Draghi style c’è lei, la politica dei partiti, dei parlamentari, dei talk show sempre meno talk e sempre più show, dove ormai l’ultimo troglodita ha lo stesso spazio di un premio Nobel, e non è democrazia ma la caricatura della democrazia, come ci ha spiegato il nefasto “uno vale uno” dell’era grillina.

Nella politica dei partiti si strilla, in Parlamento si urla. Le dichiarazioni dei politici ormai sono bollettini di battaglia, pizzini velenosi, sfide a duello, e chi la spara più grossa ottiene come premio più cuoricini su Twitter e inviti nei sopracitati talk show.

Che paragone si può fare tra lo stile di Draghi (e anche dei suoi ministri, diciamo la verità, compresi quelli politici) e quello della politica dei partiti? Ricordate il vecchio gioco? Se fosse un film, la distanza sarebbe tra François Truffaut e Neri Parenti; se fosse musica, tra Paul Mc Cartney e Adriano Pappalardo.

Si scherza, ma non troppo. Basta guardare questi ultimi giorni. Abbiamo visto un Senato trasformato in curva Sud – mancava solo il cappio leghista del ‘93 o la mortadella dei fascisti allorquando cadde Prodi nel 2008 – ma la grevità era la stessa.

Abbiamo sentito gli anatemi gentili di un Enrico Letta assillato da trame e complotti ove la pacatezza dei toni cela rancorose ansie vendicative; abbiamo intravisto un Matteo Renzi rabbiosissimo contro chi lo attacca e i suoi accettare la rissa; abbiamo ascoltato i Calderoli, i La Russa, i Romeo, i Gasparri (stavolta Salvini ha saltato un giro) con la bava alla bocca. E per fortuna al Senato non siede Giorgia Meloni, così che stavolta è mancata la soprano dell’insolenza (chiedere a Luciana Lamorgese), forse era anche senza voce dopo gli strepiti in spagnolo nell’arena franchista.

Altra fortuna di questa fase è l’imbronciato silenzio dei grillini – il comico è sparito – a partire dall’avvocato del populismo che non sa cosa dire nemmeno a pranzo con Enrico Letta.

Mentre nel frattempo il presidente del Consiglio, pur in una settimana per lui faticosissima tra sindacati e G20, con pazienza riferiva sulla manovra economica senza svicolare dal merito (come tanti premier prima di lui facevano) secondo il dettame che egli stesso aveva prescritto ai suoi ministri nella prima riunione del governo: «Parlate quando avete delle cose da dire».

Avendo fissato questo paletto, a Draghi la comunicazione viene facile: basta attenervisi. Il governo «senza aggettivi», come lo definì con fantastica sintesi Sergio Mattarella, non ha bisogno di quelle alchimie o sofismi che da sempre hanno connotato la politica italiana a tutti i livelli, compreso quello del governo: dalle convergenze parallele alla non sfiducia, dalla governabilità al nuovo miracolo italiano fino al loden e alla rottamazione, fu tutto un caleidoscopio di immagini a cui l’attuale premier ha sostituito il parlare a bassa voce di cose concrete quando di cose concrete c’è da parlare, senza interviste-bomba o simpatiche comparsate da Barbara D’Urso o Mara Venier, meno che mai utilizzando Facebook e Twitter e Instagram.

Una comunicazione fredda che solo gli arruffapopoli del Fatto possono giudicare come anticamera della reazione in agguato, mentre in realtà si ispira a uno stile europeo e non mediorientale come quello di certi capi e capetti dei nostri partiti che scambiano la passione per aggressività, misurando la dialettica con i decibel più che con la ragione.

Sono due mondi diversi, se non lontani, e il tentativo più interessante che potrebbe fare uno che volesse riavvicinare la politica al popolo sarebbe quello di contaminare i partiti con la tranquilla costruttività del presidente del Consiglio che – attenzione – non va confusa con remissività o finto buonismo, ma è espressione di forza delle idee e realizzazioni concrete.

Idee e concretezza di cui i partiti difettano, illudendosi di poter coprire la magagna facendo a chi strilla più forte. Ma la gente si sta turando i timpani.

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