Proviamo a fare lo sforzo di entrare nella testa di Giorgia Meloni, nella psicologia di una giovane donna che improvvisamente rischia di passare dalle stelle alle stalle per qualcosa che non riesce ad afferrare, a capire, e che vive queste ore con un certo sgomento oscurato solo dal suo arrogante sbuffare. Fascismo? Quale fascismo? Che c’entro io, che non ero nemmeno nata eccetera eccetera?
Lei probabilmente si sente come un pesce finito nella rete di un complotto che non può che essere stato ordito, nell’ordine: dai poteri forti; dalla sinistra; dai giornali; dal tecnocrazia europea. Tutto un armamentario tecnicamente reazionario: torna l’Europa cattiva, hanno ragione polacchi e ungheresi. Lei è la vittima. «Sono Giorgia», ricordate? Sembra tanto tempo fa, stava prevalendo nei sondaggi, vendeva tante copie del suo libretto, giusto?
Ed eccoli là, da Fanpage a Ursula von der Leyen me la stanno facendo pagare: dopo Matteo Salvini (che starà godendo) adesso tocca a me – si dirà nel suo flusso di coscienza – certo i gravi fatti di Roma vanno condannati, senza dubbio, quella non è gente “nostra”, i Fiore e i Castellino anzi ci odiano, dunque che volete da noi? E poi si fa presto a dire fascisti, ma io non so quale fosse «la matrice» degli squadristi che hanno assaltato la Cgil, ho preso le distanze, che altro volete da me… Già chissà a chi gli può venire in mente di sfondare il portone della Cgil, un bel rebus, Giorgia, ma perché ieri non sei andata da Landini invece che dai franchisti di Vox?
Appare chiaro che Meloni non ha capito la situazione. Vede la strumentalizzazione anche laddove c’è persino una indiretta sollecitazione a venir fuori una volta per tutte dalla melma della Storia. Non è capace di intendere che i conti con il passato bisogna farli non solo per mondarsi di certe sozzure ma che la chiarezza è un’opportunità per disegnare per sé e la propria parte un nuovo inizio. Non ha la forza d’animo né la passione intellettuale per cogliere che la politica è anche dolore, fatica, dialettica. Altrimenti non farebbe di tutto per impedire che il passato diventi il fantasma che la innervosisce tanto. E inciampa di continuo: non lo sapeva che Enrico Michetti scriveva frasi antisemite?
Scriveva il filosofo marxista György Lukács: «I burocrati settari obiettano: non si deve rivangare il passato, ma soltanto rappresentare il presente; il passato è passato, già del tutto superato, scomparso dall’oggi». Ce l’aveva con i sovietici del post-destalinizzazione, ma la frase ben si attaglia alla destra italiana di oggi: «Non ero nata», che c’entro col fascismo? È una risposta burocratica, se non sciocca, che ignora che la Storia è un rapporto tra il passato e il presente. Che il passato va elaborato, come il vissuto personale, e non rimosso come fa lei, perché altrimenti i nodi prima o poi vengono al pettine.
Ecco perché la sua intervista al Corriere della Sera è intrinsecamente debolissima, perché non fa conto di quel rapporto, non prende in considerazione che certi germi di ieri – un po’ come la variante Delta – si rinnovellano, forse non spariscono mai. Ecco, dovrebbero essere questi germi l’oggetto del discorso della leader dei Fratelli d’Italia più che l’aggiunta, che pare fatta tanto per farla, del fascismo tra le cose brutte. FdI tolga la fiamma missina dal simbolo, o compia comunque un atto forte di rottura. Perché non lo fa? Perché in certi quartieri di Roma, in alcuni posti del Sud, in diverse zone disagiate del Paese, non si rinuncia al voto nostalgico, maschio, tosto. Meglio non strappare quei fili. Peccato, perché così non diventerà mai grande, Giorgia Meloni, che non ce la proprio a impersonare una destra moderna.
È un discorso che lei non sente perché Giorgia pensa che i brutti “sogni neri“ siano finiti. Infatti ancora ieri, sulle squadracce romane, è tornata con quella sua vaghezza infastidita: «È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto». E così ci risiamo. Fascismo, nazismo, comunismo, totalitarismo: stessa zuppa. Non comprendendo, al di là delle evidenti lacune storiche, che in Italia esiste un problema specifico, storico, concreto, che si chiama fascismo.
Gianfranco Fini, alla fine, aveva compreso che questo era il punto e che non si poteva più girare intorno. «Anche io ero in An», dice Giorgia. Vero, ma lei a Gerusalemme a dire che il fascismo è il male assoluto non ci è mai andata. Né si ricorda una qualche sua elaborazione a sostegno della svolta finiana, probabilmente vissuta come mossa tattica, marketing politico, nulla più, tanto è vero che lei non seguì la vicenda di Futuro e libertà ma restò con Silvio Berlusconi in attesa di rifare prima o poi un Msi 2.0. Non capendo che «la storia non ha nascondigli», soprattutto la propria storia.
Giorgia Meloni, se andasse al governo, farebbe molti pasticci ma certo non abolirebbe le libertà democratiche. Non è questo il punto. Il punto è che lei è estranea all’antifascismo – probabilmente considera la Resistenza una roba dei comunisti per nulla edificante – e dunque al valore fondante della Costituzione. È questo che le impedisce da stare al di qua della barricata contro i neofascisti per i quali prova soprattutto un’enorme animosità perché le rendono impervia la strada verso il governo, e solo questo. Non è fascista, Giorgia, e nemmeno antifascista. Nel mezzo, le prende da entrambi i fronti, ed è solo colpa sua.