L’immagine di Milano nella storia del cinema è legata ai pochi registi italiani che – alla ricerca di un’urbanità pragmatica ma allo stesso tempo verace in cui ambientare le loro storie – hanno scelto di raccontare la città meneghina, trovando nell’atmosfera industriosa e nella realtà borghese e operaia al tempo stesso, il teatro più consono per drammi, commedie e vicende di riscatto sociale.
Esiste nella iconografia consolidata di questa città, una Milano lirica e fiabesca, quella di “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica. C’è poi la Milano più tipicamente neorealista di “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti. La Milano proletaria, politica e grottesca tratteggiata in “La classe operaia va in paradiso” e, infine, la Milano vista con la lente dello stereotipo popolare più comune, quello della città grigia e fredda, reinterpretato più volte dalla tradizione della commedia all’italiana, con Carlo Lizzani, Dino Risi e prima ancora con le immortali pellicole di Totò.
Esiste però un regista italiano che nell’epoca d’oro del neorealismo ha saputo immortalare Milano in maniera innovativa e originale, reinterpretandone le contraddizioni e i contrasti, ma soprattutto trasformando lo spazio urbano e l’architettura milanese da “teatro dell’azione” a vero e proprio “soggetto”: si tratta di Michelangelo Antonioni.
Antonioni è, fra i registi europei suoi contemporanei, colui che più ha incarnato la volontà di rappresentare l’architettura e lo spazio architettonico come protagonisti, attraverso tematiche proprie della sua poetica, quali l’alienazione, l’incomunicabilità la percezione del vuoto e dell’assenza. Questo mostra non solo un mai celato interesse per l’architettura, ma anche una volontà programmatica nel fondare le vicende, siano eventi o drammi interiori, nel contesto definito da una sua architettura che diviene parte dell’agire scenico. Il luogo architettonico e il contesto urbano sono elementi fondamentali del profondo linguaggio visivo di Antonioni e motivo primario di funzioni narrative e drammaturgiche, quali temi e antinomie.
Non si tratta semplicemente di location specificatamente riconoscibili, il valore delle singole architetture non è asservito alle necessità di trama. La città stessa non è ambiente anonimo in quanto agglomerato di forme: ciascun elemento di essa è isolato a diventare soggetto ancor più della figura umana, che in esse (e con esse) interagisce.
Ne “La notte”, celebre capitolo centrale della tetralogia esistenziale, Antonioni racconta Milano in una lunga sequenza iniziale che alla rappresentazione naturalista già cara al neorealismo aggiunge la volontà di raccontare ciò che sta al di là della storia, lo spazio in sé. Il film si apre con un lungo piano sequenza che lentamente accarezza le superfici vetrate dell’allora nuovissimo grattacielo Pirelli, calando lo spettatore nell’architettura della città e al tempo stesso nel dramma.
Il regista sceglie di introdurre i protagonisti, Lidia (Jeanne Moreau) e Giovanni (Marcello Mastroianni) in via Lanzone, in visita all’amico Tommaso, morente in ospedale. L’ospedale non è altro che il celebre Condominio XXI aprile di Asnago e Vender e la sfavillante Alfa Romeo Giulietta di Giovanni svolta dalla stretta via del centro all’ampio cortile interno, in un accostamento fra architettura e automobile di gusto prettamente modernista. Le forme severe e i giochi di pieni e vuoti tipici di Asnago e Vender sono fissati in lunghe inquadrature che, con gusto prettamente fotografico, ne comunicano la potenza espressiva.
Nella stanza di Tommaso, al drammatico commiato fa sfondo la finestra. Dal letto, Tommaso non vede altro che la classicheggiante facciata dell’edificio antistante ma Lidia, affacciandosi, scorge i grandi colossi di vetro e cemento della Milano dei primi anni ’60. Mentre lo sguardo del primo è volto interamente al passato, quello della donna è in grado di muoversi tra passato e presente. Lidia è infatti la vera protagonista, in un certo senso destinata a vedere più degli altri. Legge le trasformazioni che la circondano, le interiorizza e le confronta con il proprio personale tormento. La donna, come negli altri due film della trilogia, diventa un filtro sensibile, capace di contemplare il mondo che cambia.
Lidia sarà soggetto, pochi attimi più tardi, delle sequenze più significative. Dopo il rientro a casa di Giovanni, la ritroviamo che vaga per la città, senza meta. Nel suo allontanarsi dal marito – sia fisico che sentimentale – i luoghi più significativi della Milano moderna si susseguono uno dopo l’altro. La torre Breda di Mattioni e Soncini, la Montecatini di Gio Ponti, e poi bruscamente i pieni vigorosi dell’imponente complesso di Luigi Moretti in Corso Italia.
Atterrita dalle vaste superfici, dalle ombre crude e dai riflessi delle vetrate, Lidia svolta l’angolo e improvvisamente si ritrova in via Conservatorio. Vediamo Santa Maria della Passione, immagine della vecchia Milano, ma al ciottolato si sostituisce subito l’asfalto, e la protagonista si incammina lentamente verso il grande complesso residenziale di via Corridoni, opera prima di Moretti a Milano.
In un cortocircuito spaziale e temporale che diventa una dedica all’architetto romano, lo spazio urbano è tagliato, spostato e ricucito nel montaggio. Non un collage funzionale alle necessità del set o della sceneggiatura, bensì un’operazione significativa e definita da una scelta estetica e narrativa. Anche le limpide riprese a campo lungo vengono meno, i volumi morettiani sono ripresi dal basso, distorti e illeggibili, oppure dall’alto, prepotentemente imposti sulla minuscola figura umana, a schiacciarla. Il paradigma dell’oppressione e dell’incomunicabilità non potrebbe essere più chiaro di così, attraverso le forme dell’architettura.
Noi siamo Lidia, e attraverso i suoi occhi conosciamo il tempo della città e le sue identità nascoste. Nel suo viaggio interiore, nel suo nomadismo, poetica comune in Antonioni, la città caotica e concitata d’un tratto si rallenta e si fa deserto metropolitano. Ad ogni svolta, ad ogni nuovo scorcio, il racconto diventa trasparente e sospeso, mentre l’architettura si costituisce per inquadrature sempre più ardite e ravvicinate in una composizione metafisica di forme, in un gioco drammatico di luci e ombre. «È il dramma che», come suggeriva Jean Luc Godard in una celebre intervista a Michelangelo Antonioni, «da psicologico si fa plastico».