Sostiene Piercamillo Davigo che il giudizio politico su di una sentenza di condanna non ha bisogno di attendere i tempi lunghi della giustizia e il processo di ultimo grado in Cassazione: le conseguenze si possono trarre subito. Ho sempre pensato che Davigo avesse una parte di ragione e ho pensato a lui quando ho saputo della bastonata di decenni di reclusione comminata dal Tribunale di Locri a Mimmo Lucano e ai suoi collaboratori, in quanto artefici del modello Riace di accoglienza agli immigrati.
La conseguenza politica più immediata è certamente la ricaduta della decisione sulla campagna elettorale di Lucano candidato nella Lista De Magistris alle regionali calabresi: l’eventuale elezione sarebbe sospesa, sia pur provvisoriamente, in virtù della Legge Severino la cui costituzionalità è stata ribadita solo pochi mesi fa dalla Corte Costituzionale.
Ma non è di giustizia a orologeria e altre stucchevolezze che qui si vuol parlare, quanto del significato più evidente in chiave politica: la demolizione in un ottica criminologica di un modello di assistenza sussidiaria allo Stato organizzato dai privati.
Una famosa intercettazione di uno degli imputati di Mafia Capitale («Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? La droga rende meno») aveva già contribuito a mutare la percezione e il clima intorno al fenomeno: non sappiamo se i giudici di Locri si sono ricordati di questa frase ma sicuramente la chiave di interpretazione del modello Riace è quella in essa evocata.
Leggeremo tra tre mesi, salvo proroghe, il complesso ragionamento probatorio del tribunale calabrese, intanto già la lettura del semplice dispositivo dimostra chiaramente l’interpretazione dei fatti e autorizza una prima analisi che peraltro già tenta Marco Travaglio ovviamente e coerentemente in chiave giustizialista, pasticciando, come spesso gli capita tra le norme di diritto e i suoi pregiudizi colpevolisti.
L’accusa mossa tenacemente dalla procura di Locri ha sin dall’inizio avuto vita difficile e trovato gelida accoglienza da diversi giudici esterni chiamati a intervenire a vario titolo nella vicenda, prima di trovare una più che entusiastica condivisione da parte del Tribunale locale.
Il primo, a dire il vero, era stato il giudice delle indagini preliminari di Locri che di fronte alla richiesta di misure cautelari addirittura carcerarie nei confronti di Lucano e dei collaboratori aveva criticato l’impostazione dell’accusa con termini estremamente duri e anzi inquietanti per ciò che concerne l’obiettività degli stessi pubblici ministeri che già allora avevano delineato il sistema Riace come un’organizzazione criminale di truffatori seriali.
Ad esempio, ed è il particolare più eclatante, il Giudice per le indagini preliminari (Gip) ha rimproverato ai pubblici ministeri di aver contestato come oggetto di una truffa ai danni dello Stato tutte le somme percepite senza considerare e detrarre le spese legittimamente sostenute per i servizi regolarmente resi: un errore grossolano che costituisce la violazione di una giurisprudenza consolidata della Cassazione.
La seconda contestazione mossa dal Gip è quella di aver basato le accuse sulle dichiarazioni di un teste interessato e per di più coinvolto, ascoltato senza avere la doverosa assistenza legale e dunque inutilizzabili.
Il giudice di Locri aveva lasciato in vita due sole accuse ai fini di applicare gli arresti domiciliari piuttosto residuali che poi la Cassazione sul ricorso dei PM che insistevano addirittura per il carcere aveva ridotto a una sola di abuso d’ufficio (favoreggiamento di immigrazione clandestina da cui Lucano è stato assolto).
Con l’occasione anche i supremi giudici avevano criticato la vaghezza della impostazione accusatoria che ad esempio evidenziava come programma criminale la celebrazione seriale di finti matrimoni tra immigrati come strumento per consentire l’ingresso illegale. Sia detto senza offesa, una tesi che certamente avrebbero condiviso Matteo Salvini, Giorgia Meloni e complottisti nazistoidi vari (forse anche Travaglio, eternamente innamorato delle procure) ma che poi si è persa per strada senza arrivare al processo.
E infatti il leader della Lega, quando era ministro dell’interno, partendo dall’indagine penale ne aveva profittato per ordinare lo smantellamento delle strutture facenti capo alle cooperative di Lucano, ma il suo tentativo è stato vanificato da due successive sentenze del Tar e del Consiglio di Stato che avevano invece sottolineato come nonostante il caos amministrativo che – riconoscono i giudici – «emerge con chiarezza dagli atti di causa», Riace stava svolgendo un ruolo positivo con «riconosciuti e innegabili meriti che hanno un ruolo decisivo nel ritenere superate (e non penalizzanti) le criticità».
Orbene, ben può essere che il desolante per non dire desertico panorama accusatorio sia rifiorito nel processo, nonostante Travaglio, Davigo &Co. siano convinti della sua sostanziale inutilità dopo le indagini dei PM, invece non sufficienti nel caso di specie, ma a dire il vero le risultanze ultime non confortano se è vero che l’accusa ha addirittura modificato le ipotesi di reato poco prima della discussione finale
È questo un segnale di evidente difficoltà a indicare fatti e accuse precise così come dovrebbe essere buona regola in uno Stato di diritto dove l’imputato dovrebbe saper nel minor tempo possibile di cosa lo si accusa e invece spesso deve inseguire i continui cambi di direzione dell’accusa.
Come è avvenuto a Lucano cui il Tribunale in camera di consiglio ha addirittura cambiato un capo d’imputazione (capo 2) nonostante i pubblici ministeri avessero già modificato l’accusa, trasformando il reato di abuso di ufficio in truffa per erogazione di pubblico denaro, il che potrebbe costituire una violazione del diritto di difesa e motivo di nullità della sentenza. Ma se la vedranno gli avvocati.
Qui invece sia consentito una chiosa a Travaglio che nella foga di difendere la sentenza si avventura nel pericoloso sentiero del diritto penale: per arrivare a tredici anni i giudici comminano il massimo della pena come risulta evidente dal fatto che la richiesta dei PM era stata di gran lunga inferiore.
Non c’entra nulla il numero dei reati, il calcolo in casi del genere e secondo l’art. 81 del codice penale si fa partendo dal reato più grave «aumentato sino al triplo», «aumentato sino» e non “del” triplo, ovviamente per i casi più gravi. Il reato con pena più alta è il peculato che prevede una pena minima di cinque anni.
Se il Tribunale, come vuol far credere Travaglio, si è limitato al minimo della pena va detto che ha pressochè toccato il calcolo massimo di condanna, perdipiù negando anche le attenuanti generiche che a un incensurato difficilmente si sono mai negate.
Ciò vuol dire che Lucano non è stato considerato un povero pasticcione un po’ megalomane, ma il capo di un’associazione a delinquere che speculava sugli immigrati. Per dire Massimo Carminati in Mafia Capitale ha avuto la stessa condanna. Sta alla sua coscienza e a quella di chi per anni ha difeso questo sistema dire se questa lettura «che uccide l’anima di Mimmo Lucano» può essere vera. Ma non raccontiamoci storie.
È una vicenda politica che spacca la sinistra sia politica che della magistratura: mentre Magistratura Democratica tramite lo storico esponente Livio Pepino critica la sentenza, tacciono le altre componenti evidentemente preoccupate di non dividersi e di non indebolire la corporazione.
Il rischio, tuttavia, è quello di coltivare la possibile e pericolosa illusione di alcuni settori della magistratura di riacquistare credibilità con sentenze esemplari inseguendo mostri.
Parla invece la sinistra per bocca del segretario del Partito democratico che abbraccia Lucano: fa bene, ma avrebbe dovuto abbracciare anche il generale Mario Mori e i fedeli servitori dello Stato assolti qualche giorno fa a Palermo. Non si può essere garantisti a intermittenza. La sinistra con ambizioni di governo farebbe bene a riflettere che il problema della magistratura italiana è serio, molto serio.