La prima è stata Taylor Swift: ha venduto il catalogo a Shamrock Capital per 300 milioni di euro, a novembre 2020. Un mese dopo lo ha fatto Stevie Nicks, dei Fleetwood Mac, che ha ceduto i suoi diritti alla società specializzata Primary Wave: 100 milioni di euro. Bob Dylan, a gennaio 2021, si è accordato con la Universal Music per il triplo. Mentre Paul Simon, ad aprile 2021, ha venduto il suo catalogo alla Sony per 250 milioni. Un mercato in movimento, senza dubbio. Anche se il salto di qualità è avvenuto a ottobre 2021, quando il catalogo della Kobalt, che comprende successi di Lorde e The Weeknd, è stato venduto a una società appartenente a KKR, gigante del private equity, per 1,1 miliardi.
È un salto di qualità, che testimonia come il settore dei diritti musicali sia tornato a interessare gli investitori, soprattutto quelli più grandi: come ricorda questo articolo del Financial Times, giganti come Blackstone, Apollo Global Management e la stessa KKR hanno investito, in totale, 3 miliardi di dollari nell’acquisto di diritti d’autore. Hanno osservato la situazione e in poco tempo hanno deciso di entrare anche loro, scommettendo nel fatto che la musica stia tornando a essere una asset class.
La svolta è dovuta alla diffusione dello streaming e, soprattutto, dei nuovi social. In questo senso il caso di “Dreams”, dei Fleetwood Mac, è da manuale. La canzone, vecchia di 40 anni, è tornata alla ribalta grazie a un video postato su TikTok, dove un ignaro utente dell’Idaho la canticchiava spostandosi su uno skateboard. Nel giro di poco è finita sesta nella classifica di Spotify, tra un brano di Cardi B e un altro di Drake, generando milioni di dollari in diritti. Nei mesi successivi i componenti della band hanno monetizzato questa insperata fortuna vendendo i loro diritti a società specializzate nel settore.
È un esempio, ma indicativo. Se una volta erano film e pubblicità a ridare nuova vita alle hit del passato (e portare nuovi guadagni ai detentori dei diritti) adesso sono le piattaforme social, che vantano però una scala dimensionale enorme e, di conseguenza, la possibilità di incassare molto di più.
E ora, come spiega il fondatore della casa discografica SONGS Matt Pincus al quotidiano finanziario britannico, «c’è una classe di investitori interessata ai diritti musicali che prima non c’era». Anche Goldman Sachs ha previsto che i ricavi nel settore raddoppieranno nei prossimi dieci anni, raggiungendo quota 140 miliardi di dollari.
Se fino a pochi mesi fa le aste per i cataloghi erano terreno di caccia delle grandi etichette o di piccoli fondi specializzati nei diritti d’autore (come Primary Wave, o Hipgnosis), adesso la gara si è aperta a soggetti che gestiscono miliardi di dollari. Come è evidente, le cose cambieranno: se prima si badava molto alla qualità e alle potenzialità delle canzoni – almeno così dicono nel settore – ora l’atteggiamento sarà senza dubbio meno romantico.
Le grandi società di private equity, come è ovvio, guardano ai diritti come a un modo per diversificare il portafoglio, un’alternativa e un’opportunità di crescita diversa da azioni e obbligazioni. In questo senso, non sono tanto diversi dal finanziamento di catene in franchise di fast food, dal momento che generano flussi di cassa notevoli, sono diversificati e non collegati all’andamento dei mercati finanziari e dell’economia globale.
Non solo: società come KKR e Blackstone, grazie ai loro investimenti nelle nuove tecnologie e soprattutto nelle piattaforme social (ByteDance, in particolare, cui fa capo proprio TikTok), sono convinte di poter creare creare nuove occasioni di rilancio delle canzoni del loro catalogo.