In Iran è definito «uomo coraggioso». Viene apprezzata la sua autonomia di pensiero, la sottigliezza critica, la capacità di essere universale. È inaspettato e suscita curiosità, ma a Teheran Leonardo Sciascia è sempre più amato. È quello che emerge dalla lezione che si è tenuta il 19 ottobre (si può vedere anche su Youtube) nella sede dell’ambasciata italiana, in un ciclo di incontri in varie città del mondo in occasione del centenario della nascita dello scrittore siciliano.
Un legame insolito, illustrato in una sorta di tavola rotonda dall’ambasciatore Giuseppe Perrone, insieme alla senatrice Emma Bonino, collegata da Roma in qualità di presidente del Comitato Nazionale del centenario sciasciano e a diversi studiosi italiani e iraniani. Il tutto nella cornice, stupenda, del giardino della sede italiana («È il più grande in stile persiano della città», spiega Perrone) dove è ancora estate.
Che Sciascia appartenga a molti mondi è cosa nota, ricorda Emma Bonino. In particolare quello francese, da lui amatissimo. Ma perché l’Iran? Il pensiero di Sciascia – ricorda Perrone – va di pari passo con la sua sicilianità: le sue osservazioni, di conseguenza, sono fatte su un mondo che a Teheran appare molto familiare. È un fatto di contesto (appunto). I due mondi si richiamano, le realtà appaiono parallele e le riflessioni di Sciascia sulla società italiana diventano universali.
Come spiega il professor Mohamad Kiaei, dell’Università di Tehran, «non viene considerato come autore di gialli, un genere che qui non è considerato serio. Sciascia fa riflessioni sugli sfruttati, sulla classe-massa costretta a spostarsi lungo il territorio italiano in cerca di lavoro, sulle storture della società». I lettori iraniani vedono in lui «un senso di umanità vero, malgrado l’amarezza. È una realtà umana e concreta, senza vivacità o speranza, ma autentica». Le sue analisi del potere, della mafia, del conformismo toccano profondità universali.
Ma anche il legame particolare, quello con l’Iran, è più profondo di quanto non si pensi. Sciascia non è mai stato lì, ma aveva studiato la situazione del Paese soprattutto tra il 1979 e il 1980, quando divenne parlamentare.
Era preoccupato per lo scivolamento del Paese verso l’intolleranza e vedeva rischi «per un fanatismo trionfante», ricorda il professor Giovanni Capecchi dell’Università per Stranieri di Perugia. A livello letterario era affascinato dalle “Mille e una notte”, amava la capacità delle storie di oltrepassare i confini e arricchirsi nel frattempo.
Lo stesso avviene in senso inverso: i suoi libri portano al lettore iraniano un senso di novità e familiarità insieme. Lo ha spiegato Sanam Ghiaei, traduttrice della raccolta di racconti “Gli zii di Sicilia” in persiano, insieme al professor Giacomo Longhi, iranista dell’Università Statale di Milano. «Nel racconto “La zia d’America” ho ritrovato parte della mia stessa esperienza. Sono tanti gli iraniani che hanno parenti in altri Paesi, e anche negli Stati Uniti. Si pensi solo a Tehrangeles, il quartiere di Los Angeles abitato da persiani. L’invio di doni, di pensieri da quel mondo lontano è un tratto comune».
“Quarantotto”, il secondo, è una riflessione sciasciana sul Risorgimento italiano: «Noi iraniani ne siamo toccati perché siamo sempre stati in attesa di un Garibaldi persiano», mentre i parallelismi de “La morte di Stalin”, il sogno nel sogno, richiamano modelli precisi come Abbas Kiarostami e Iraj Pezeshkzad, autore di “Mio zio Napoleone”.
Anche le espressioni gergali, «soprattutto gli insulti e le maledizioni, sono le stesse: dal siciliano al persiano. Per tradurle non ho dovuto nemmeno cambiare parole».
Più che un ponte tra culture, le opere di Sciascia sono un continuum che, a loro volta, superano confini e barriere. Un incedere scettico e amaro, uno sguardo sottile e indipendente che vale per tutti. Anche se – come forse avrebbe detto – a ciascuno va il suo.