Silvio Perrella è uno degli scrittori notevoli della sua generazione, i nati negli ormai remoti anni Cinquanta. Saggista letterario di qualità, recensore mai banale, ha al suo attivo un testo narrativo, “Io ho paura“, che era rimasto tra i libri non letti. Era rimasto lì, come si suol dire. Prima di discorrere di quello e di altri libri, vale la pena chiarire un punto. Perrella non ha avuto la fortuna editoriale (e la sfortuna della esposizione) di Emanuele Trevi – per dire l’autore corrispondente della generazione successiva – ma non ha nulla da invidiare al recente vincitore del premio Strega.
«Quando lo conobbi, verso la fine degli anni Ottanta, Cesare Garboli mi apparve come un signore fascinoso che per qualche misteriosa ragione aveva deciso di starsene ai margini della scena culturale italiana, pur possedendo tutte le caratteristiche per occupare il centro […]. Eppure fu proprio in quel periodo che la stella-Garboli cominciò a riprendere lucentezza […]. Per me, l’incontro con Garboli fu determinante. Con lui, per la prima volta scoprivo che si poteva abitare la letteratura senza essere professori universitari e senza nemmeno scrivere romanzi». Così scrive Perrella – e vale per tutti gli allora giovani nati negli anni Cinquanta e Sessanta (Trevi) che cercavano il compimento della (e nella) letteratura senza passare per le forche caudine dell’università e senza l’obbligo del romanzo.
(Oggi, nel tempo della “pura narratività”, son tornati a essere detti “scrittori” soltanto gli estensori di romanzi (?). Ricordo che alla mia domanda a un direttore sul motivo di affidare a una mediocrità uno spazio di recensione, lo stesso rispose sorpreso: «Ma è uno scrittore» – la mediocrità in questione ha scritto un non ben identificabile testo di “pura narratività” che un tempo sarebbe finito dritto nel cestino).
Allora: «Abitare la letteratura senza essere professori universitari e senza nemmeno scrivere romanzi», vuol dire scegliere il lavoro editoriale e la scrittura saggistica e di servizio (recensioni, risvolti). Perrella ha scelto di farlo in libertà, fuori da una casa editrice, e gli ha detto bene. Il libro d’esordio è stato un saggio su Italo Calvino (come per Domenico Scarpa, altro scrittore-lettore di qualità), nel 1999; quattro anni dopo pubblica il primo libro notevole, “Fino a Salgarèda. La scrittura nomade di Goffredo Parise“, saggio narrativo che portava a compimento il lungo lavoro sulle opere dello scrittore e metteva in luce le qualità dell’autore.
“Fino a Salgareda“ è il libro che fissa due coordinate importanti dell’opera di Perrella: il far narrazione di scrittori e città in un gioco di rimandi speculare e simpatetico, l’attenzione ai responsi dei sensi e agli itinerari della “ragione del cuore” degli autori – il farne intelaiatura, quindi forma, e non cornice. Così di Parise: «La sua logica elementare consiste soprattutto nell’uso critico dei sensi» (definizione precisa che per osmosi passa e vale per lo stesso Perrella); e poi: aveva «un senso un poco diavolesco di mettere insieme nello stesso istante fenomeno naturale, anche microscopico, e destino». Come dir meglio il miglior Parise, quello dei primi due libri, “Il ragazzo morto e le comete” e “La grande vacanza”, inauditi nel panorama letterario degli anni Cinquanta, le prose di “Lontano” e il capolavoro, i “Sillabari”.
Siciliano di nascita e così (per genetica) refrattario alla gnagnera romana, Perrella ha trovato il luogo da abitare in Napoli e in Raffaele La Capria, amico d’elezione di Parise e a lui affine per poetica e grazia naturale, un nume tutelare e un modello. (Perrella ha curato i due volumi dei Meridiani dedicati allo scrittore napoletano). Napoli aspetta sempre di essere narrata – non finisce mai. Nasce così “Giùnapoli“, il libro più fortunato e per ora il migliore di Silvio Perrella.
In “Giùnapoli“ il «narratore urbano» (la definizione è sua) mette a frutto le letture e gli incontri, le camminate a scoprire gli infiniti volti della capitale mediterranea in un saggio narrativo che può star vicino a quelli di La Capria – non è poco. La Capria, la chiarezza della luce e l’armonia dell’onda, da un lato; Anna Maria Ortese, le visioni della «lente scura» e il fantasma del mare (“Il mare non bagna Napoli“, è titolo che dice tutta l’Ortese), dall’altro: l’ossimoro letterario che dice la città e la ferita. Perrella discorre con La Capria, telefona alla Ortese, incontra Ermanno Rea e legge Enzo Striano, altri protagonisti – e intanto cammina, giùnapoli e sùnapoli («Non opporre resistenza, abbandonarsi all’onda della città. Gli occhi lanciati verso le direzioni, poggiati sulle traiettorie, al ritmo dei passi»), e ribadisce la professione di fede: «La letteratura diventa, semplicemente, l’uso critico dei sensi». Insomma, familiarizza con l’occhio e il passo della sua prosa e scrive.
“Io ho paura“ è il testo narrativo che apre un nuovo capitolo del lavoro di Perrella. Devo confessarlo: il titolo mi irrita. Il rimando al bestseller di Niccolò Ammaniti sa di trovatina e non corrisponde alla natura del libro. Il titolo era già bell’e pronto: “Qui“. Ma andiamo con ordine. Si tratta del primo, interessante tentativo di una narrazione come “arte della variazione” (Perrella ha in mente le “Variazioni Goldberg” di Bach, nell’interpretazione di Glenn Gould): «Tessere mobili di un mosaico mai finito, sempre in itinere». Insomma, una variante delle prose calviniane de “Le città invisibili“. Si può anche dire meglio: i “Sillabari“ incontrano “Le città invisibili“.
Il libro è il «diario di un mese trascorso in un luogo di paure naturali», detto Qui (quale sia li luogo reale il lettore lo sa da “Giùnapoli“), un paradiso di terra e di mare. Perrella è un narratore urbano che non riesce a stare lontano dall’acqua, e così nuota, avanti a stile libero e indietro a dorso, e intanto si interroga sulle altre paure, le paure indotte e inoculate – le «paure industriali», le dice. Le tessere del mosaico si dispongono in armonia ma secondo un ordine troppo programmatico: il discorso sulla paura invece di nascere dalle «paure naturali» e da Qui, come è conseguente alla poetica dell’autore, si impone per decreto editoriale. Si perde la leggerezza di passo e penna che è dell’autore. Non importa: il libro segna un punto di partenza. Forte è la corrispondenza tra la forma e la poetica dell’autore.
Lo confermano alcune pagine di “Da qui a lì. Ponti, scorci, preludi“, che vanno lette insieme a “Io ho paura“ (che io dico “Qui“) – e lo precede di un anno. Perrella apre già qui il discorso sulle “Variazioni Goldberg“ e scrive della passione di Edward W. Said per la interpretazione di Glenn Gould, che dice usare le dita per pensare, ovvero per interpretare, l’arte del saggista; scrive dei libri di prosa dei poeti italiani («i libri di prosa dei poeti sono libri “di cose“, più che di parole»), rileva come i poeti quando scrivono prosa usino una lingua “scorciata” («Provano a celebrare quel matrimonio tra le parole e le cose invocato da Federico Tozzi all’inizio del Novecento»); dice “Le città invisibili“ e i “Sillabari“ esempi di «poesia in prosa» e ammonisce i fresconi che la confondono con la prosa d’arte del primo Novecento – insomma, dice la sua prosa. Variazioni, preludi, visione scorciata – a occhi socchiusi, mi vien da dire. Il narratore urbano sa che la sua arte è quella della metamorfosi dello spazio architettonico in spazio psichico (W. G. Sebald è il maestro), dove percezione e memoria si fondono. C’è un taglio narrativo perfetto, e calviniano: Centopagine.