Reso compulsivoChe cos’è il bracketing e perché negli Stati Uniti è diventato un problema ingestibile

Solo nel 2020 sono state restituite merci acquistate online per un valore complessivo di oltre 100 miliardi di dollari. In parte questi prodotti sono dirottati verso i rivenditori all’ingrosso, in parte sono scomposti per recuperarne almeno le parti di maggior valore e in parte vengono inceneriti. È un processo che riguarda soprattutto i capi di vestiario e che risulta dannoso in ogni sua fase

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Negli Stati Uniti sta per collassare il sistema di restituzione di merce ordinata online. In un Paese in cui da un terzo alla metà del totale dei vestiti acquistati provengono da internet, il rischio era prevedibile – se non già previsto, stando a quanto sostiene Amanda Mull sull’Atlantic

Nella madrepatria del consumismo più sfrenato mesi di restrizioni e carenze pandemiche sono riusciti ad accelerare ancora di più i già alti numeri degli acquisti online. Questa crescita esplosiva delle vendite su internet ha anche ingrandito uno dei maggiori problemi dell’e-commerce: i resi. Ma andiamo con ordine. Uno dei motori che stanno dietro a tale crescita nel campo dell’e-commerce di vestiario è il bracketing

Il bracketing è la pratica comune di ordinare una taglia in più e una in meno rispetto alla taglia di cui si pensa di aver bisogno. Molti rivenditori incoraggiano attivamente questa pratica, al fine di far sentire al sicuro i propri clienti nell’effettuare gli acquisti. Codici sconto, spedizioni e resi gratuiti, sono alcune delle garanzie offerte dai rivenditori statunitensi, che così facendo promuovono più acquisti e più resi.

Nel 2020 ciò ha comportato un ritiro di merce venduta online del valore di oltre 100 miliardi di dollari. Merce che si accumula, e che in parte viene dirottata al mercato dei rivenditori all’ingrosso, in parte scomposta per recuperarne le parti più di valore, in parte incenerita. Un processo che, in ogni sua fase, risulta essere estremamente dannoso in termini di spreco fisico dei prodotti e di successivo smaltimento. 

In una corsa sfrenata per ottenere nuovi clienti e mantenerli soddisfatti a ogni costo, i rivenditori hanno indottrinato gli acquirenti allo spreco in un modo che sta lentamente portando allo sfacelo i settori del commercio al dettaglio e della logistica.

Mull individua due tipologie di logistica: una diretta e una inversa. La prima riguarda il processo di spostamento delle merci dai produttori ai loro utenti finali, ed è quella con cui la maggior parte dei consumatori interagisce più regolarmente. La seconda, invece, consiste nel recuperare gli articoli indesiderati dai consumatori e capire cosa farne. A detta di Tim Brown, direttore generale del Supply Chain and Logistics Institute al Georgia Tech, «la logistica inversa è squallida».

I resi vengono raccolti uno per uno dai corrieri – sia di negozi fisici sia di negozi online – e spesso anche da un numero sempre maggiore di terze parti. Il procedimento è il seguente: i lavoratori delle strutture di smistamento aprono i pacchi e cercano di capire se l’oggetto che hanno davanti è ancora funzionale, pulito, intatto e/o se uno o più dei suoi componenti è economicamente e/o fisicamente recuperabile.

Il più delle volte non è così. Dal 5 al 10 per cento delle restituzioni sono fraudolente: i consumatori «dichiarano che stanno mandando indietro l’oggetto X e invece si tratta di un topo morto». Una volta sfatato il mito per cui gli oggetti restituiti non tornano nel mercato d’acquisto iniziale, ma vengono scartati di default, Mull spiega perché questo passaggio è diventato quasi del tutto proibitivo negli Stati Uniti. «Alcune cose, come i prodotti di bellezza, la biancheria intima e i costumi da bagno», afferma, «vengono distrutti per motivi sanitari, anche se sembrano essere non aperti o inutilizzati. Oggetti funzionanti o riutilizzabili vengono buttati via, perché la matematica finanziaria stabilisce che conviene così. E il fast fashion è campione di sprechi di questo tipo. Smaltire un vestito Fashion Nova, ad esempio, venduto per 25 dollari e rimandato indietro senza confezione dopo 30 giorni, comprende: la manodopera per prendere, imballare e spedire l’articolo; il trasporto sia in arrivo sia in partenza; la manodopera per ricevere e smistare l’articolo restituito; il cartone e la plastica per l’imballaggio; le spese generali della struttura di smistamento. 

Molti prodotti sopravvivono e vengono persino venduti di nuovo, solo non ai clienti del rivenditore. Mull individua i negozi Neiman Marcus e Target come i principali in grado di restituire i prodotti in eccesso agli stessi marchi, con un rimborso almeno parziale. Nonostante ciò, Joel Rampoldt, amministratore delegato della società di consulenza AlixPartners, dice che la maggior parte delle persone che lavorano nel settore ritengono che circa il 25 per cento dei resi venga scartato.

Una domanda che sorge spontanea, a questo punto, è come mai questi resi non vengano semplicemente donati. La risposta è semplice: per quanto le donazioni siano la mossa moralmente più corretta, le aziende hanno pochi incentivi per farlo e di conseguenza molte evitano donazioni interne su larga scala per via della cosiddetta diluizione del brand. «Se i clienti ti beccano a regalare cose ai poveri, quelle cose smettono di avere un valore», chiarisce Mull.

Negli Stati Uniti in tutte le strutture in cui si insegna a vendere ci si occupa soltanto della logistica diretta e quasi mai della logistica inversa. Il risultato è che i negozi non vogliono parlare di resi. Nessuna azienda vorrebbe mai attirare l’attenzione sull’eventuale delusione dei clienti nei confronti dei loro acquisti. Anche perché una volta che le persone iniziano a pensare ai resi, potrebbero anche iniziare a chiedersi dove vada a finire tutto ciò che spediscono indietro. Non è un caso se sette degli otto brand contattati da Mull per l’Atlantic – da chi vende giocattoli economici per cani a chi si occupa di moda e di lusso – si sono rifiutati di commentare la questione. 

Ed è un silenzio condiviso. Gran parte delle aziende sono obbligate a riferire ogni anno i dettagli finanziari agli azionisti, ma le agenzie di regolamentazione non richiedono i tassi di restituzione o il loro impatto finanziario. E quindi le aziende non li specificano. Ma più le bocche sono chiuse più il problema diventa difficile da monitorare.

Negli Stati Uniti, quello dei resi si profila come un problema irrisolvibile nel breve o nel medio termine. La popolazione statunitense continuerà in massa a comprare più di quanto deciderà poi di tenere. Ma la maggior parte degli acquirenti under 40, quando intervistati, dichiarano di preferire imprese che non danneggino l’ambiente. E qui sta la contraddizione: quellio che rispondono così ai sondaggi sono gli stessi acquirenti che comprano di più online e generano quindi più resi e, di conseguenza, più inquinamento. È un ennesimo glitch del capitalismo, con cui il Paese nordamericano dovrà fare i conti ancora per molto.

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