L’entusiasmo con cui molti commentatori hanno salutato il default elettorale di populisti e sovranisti nel voto amministrativo dello scorso weekend rischia di somigliare all’ottimismo, con cui il professor Zangrillo nell’estate del 2020 decretò che il Covid era clinicamente morto, per il temporaneo svuotamento delle terapie intensive di malati da intubare.
Nei prossimi giorni vi saranno analisi più sofisticate e scientifiche del comportamento di voto degli italiani, ma le prime impressioni dovrebbero invitare razionalmente alla cautela. In primo luogo, il crollo dei consensi per Movimento 5 stelle e Lega (e in generale per il cosiddetto centro-destra) sembra strettamente correlato al crollo della partecipazione al voto.
Il che suggerisce che gli elettori delusi dai profeti del nothing’s impossible nazionalista se ne siano semplicemente restati a casa, malmostosi e insoddisfatti, in attesa degli eventi e di nuove promesse, ma non siano stati convertiti all’anti-populismo, né abbiano premiato nei rispettivi schieramenti i candidati meno manifestamente inattendibili o impresentabili.
A Torino il giorgettiano Paolo Damilano va male quanto a Roma il meloniano Enrico Michetti. Il M5s con la pochette e la grisaglia di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio non fa risultati migliori, ma decisamente peggiori, di quelli della Raggi.
Quel consenso travolgente che tra il 2016 e il 2018 fece urlare qualcuno al miracolo e altri alla catastrofe, è tornato a essere in parte sommerso, invisibile ma sempre attivabile; peraltro, l’astensionismo non è in genere una riserva di ragioni e di dubbi, ma di malumori e di fissazioni, e dunque di elettori più inclini e disponibili al voto contro, alla seduzione demagogica e all’avventurismo politico.
Sia chiaro: non è che gli astenuti siano gli elettori peggiori, ma quelli che, sentendosi esclusi e incompresi, sono più suscettibili ai messaggi semplificati e miracolistici. Per questa ragione un alto astensionismo rappresenta sempre un potenziale rischio democratico.
Inoltre, il voto di domenica e lunedì è stato un voto per lo più metropolitano, cioè di realtà dal punto di vista socio-culturale decisamente poco rappresentative dell’Italia reale, in cui quasi tre persone su dieci vivono in centri con meno di 10.000 abitanti e oltre tre su quattro in comuni fino a 100.000 abitanti.
Da questo punto di vista i risultati e le dinamiche delle regionali in Calabria (con la scomposizione del fronte cosiddetto progressista e la formazione di nuove forze populiste) rischiano purtroppo di dire delle possibili evoluzioni della politica nazionale più del risultato delle comunali di Milano.
Dal punto di vista dell’analisi, rischia infine di essere abbastanza esagerato, anche se comprensibile, il tripudio del Partito democratico per la sconfitta parziale o definitiva delle destre in città, dove però le destre non hanno mai vinto almeno negli ultimi 10 anni, ma in genere da molto di più (Milano, Bologna, Napoli, Torino) o dove hanno governato per un quinquennio nell’ultimo quarto di secolo (Roma).
Decretare la fine del populismo per fenomeni di temporanea remissione elettorale del populismo (ex) vincente, senza valutare quanto la circolazione di possibili diverse varianti possa rinfocolare un’epidemia anche più pericolosa, significa davvero esporsi al rischio corso da Zangrillo con il Covid, dando per morto un nemico che non lo era affatto.
Il populismo infatti – non bisognerebbe mai dimenticarlo – non è un sintomo della reazione popolare alla mala politica, ma è una malattia in sé, una sindrome autoimmune del corpo delle democrazie contemporanee, che aggredisce, riconoscendoli come estranei e nemici, il principi costituzionali dello stato liberale e della società aperta: dalla divisione dei poteri, al rule of law, dal principio di non discriminazione a quello di non coercizione, dal pluralismo ideologico e culturale al rispetto delle libertà e delle compatibilità economiche nell’esercizio del potere sovrano.
Il populismo contemporaneo non nasce solo dalla disintermediazione e de-istituzionalizzazione del circuito del consenso, ma dall’abolizione di ogni distinzione tra Stato e società, da cui consegue una domanda naturalmente totalitaria di inveramento della volontà generale e una interpretazione della dialettica politica come alternativa tra bene e male od onestà e corruzione.
Il populismo, come il fascismo, è l’abolizione di ogni diversità e complessità e non a caso si rifugia nel più banale dei riduzionismi ideologici, quello nazionalista. È – nuovamente: come il fascismo – un ideale organicista di superamento non solo della democrazia rappresentativa, ma della democrazia tout court, per un’immediata identificazione tra popolo e potere.
Il fatto che poi il populismo, come nel fregolismo di Conte e Di Maio, possa finire rimpannucciato nelle pochette e nelle grisaglie e annegato in un bla bla bla democraticista, non dimostra che il populismo è finito, solo che Conte e Di Maio come populisti sono bruciati e che Raggi, da questo punto di vista, è più viva di loro.
Senza una lotta a questo virus, cioè senza una vera campagna vaccinale, in senso culturale e istituzionale, il populismo addomesticato e omeopatizzato vagheggiato da Goffredo Bettini ed Enrico Letta non proteggerà il sistema politico italiano da nuove ondate di contagio, anche più distruttive di quelle conosciute fino a oggi.
La prima dose del vaccino dovrebbe essere rappresentata dalla modifica in senso proporzionale della legge elettorale, che significherebbe, in Italia, non solo la presa d’atto del fallimento di un bipolarismo, che nel corso degli anni si è prima proporzionalizzato, poi tripolarizzato e infine unificato nel paradigma bipopulista, ma l’immunizzazione delle istituzioni da un possibile scenario orbaniano.
Inoltre, la fine della gabbia bipolare coatta (che assegna due terzi dei seggi in collegi uninominali) avrebbe come effetto pressoché meccanico quello di emancipare le componenti minoritarie e non estremiste da quelle maggioritarie (varrebbe a destra, ma non solo) e di scomporre e ricomporre lo scenario politico in modo più fluido e flessibile.
L’impressione è che il PD e Letta oggi – con l’insistenza sull’o di qua o di là di berlusconianissima memoria – si illudano di affermare la propria egemonia sullo schieramento progressista, proprio opponendosi a questo rimescolamento delle carte. È un errore tattico, che però ha un fondamento strategico.
Il PD non pensa che il populismo sia quel pericolo sopra descritto, ma sia un rischio minore, da disinnescare per incorporazione, non solo con l’alleanza con il M5s, ma anche con il sostegno per così dire democratico a istanze, valori e politiche di promanazione populista. Tutto il PD, da Roma in giù, è già di fatto a immagine e somiglianza di questo sogno, che per l’Italia potrebbe presto tramutarsi nuovamente in un incubo.