No allo sciopero, e sì a un tavolo di confronto. È quello che il ministro del Lavoro Andrea Orlando propone ai sindacati in un’intervista alla Stampa, parlando di un nuovo «patto» con le parti sociali che parta dalle pensioni per arrivare poi alle politiche attive del lavoro e al salario minimo.
«Il sindacato fa le valutazioni che crede e lo sciopero è un diritto, ma credo ci siano tutte le condizioni perché sulle pensioni si apra un confronto che affronti in modo strutturale alcuni dei problemi posti», dice. «Il punto di partenza sia buono perché su molte questioni, dalla riforma degli ammortizzatori sociali alla spesa sulla sanità, passando per la parità salariale, abbiamo lavorato andando incontro a richieste storiche del sindacato. Vedo le condizioni per un dialogo sociale che può portare a un miglioramento della manovra, affrontando il tema della previdenza al di fuori del dibattito sterile “quota 100 sì quota 100 no”». Per il momento, con quota 102 per un anno, «l’intervento del governo non è strutturale. Bisognava uscire da misure eccezionali con qualcosa che rendesse meno forte l’impatto sui lavoratori», prosegue. «Ora c’è da capire come si torna a un sistema che deve essere contributivo evitando le rigidità che la legge Fornero portava con sé. A partire da cosa succede per le nuove generazioni».
Ma «più che attendista» il governo Draghi, dalle concessioni balneari al catasto, «è realista», spiega Orlando. «Bisognava prima di tutto mettere in moto i meccanismi necessari a spendere 300 miliardi di euro, i fondi del Recovery. Evitando, dove non necessario, di affrontare in modo frettoloso temi divisivi per una maggioranza così ampia. Questo non significa derubricare alcuni temi, ma creare le condizioni per poterli affrontare con uno sguardo più lungo e con il necessario confronto». Perché «non era scontato gestire in maniera unitaria e senza rotture due temi divisivi e fortemente simbolici come quota 100 e reddito di cittadinanza».
Ma sulla riforma delle politiche attive, il vulnus del nostro sistema, c’è ancora molta vaghezza. «Abbiamo già stanziato le risorse», commenta Orlando. «Il vero punto interrogativo è la capacità delle Regioni di spenderle in tempo utile, avendo come precedente non brillante quel che è accaduto per i centri dell’impiego quando fu varato il reddito di cittadinanza. Centri che saranno potenziati, ma ai quali non andranno i 4 miliardi come è stato detto erroneamente. Adesso i fondi serviranno a finanziare percorsi per i disoccupati e per i lavoratori, sulla base di progetti formativi che saranno definiti dalle imprese e dai soggetti della formazione e veicolati sia dai centri per l’impiego che da agenzie private».
Ma stavolta la differenza è che «sulle risorse del Pnrr c’è la possibilità di intervenire con poteri sostitutivi. Non è mai successo in questo campo, ma è una carta che se non viene rispettata la tabella di marcia può essere utilizzata. Oltre a questo credo ci possano essere strumenti di monitoraggio e di valutazione degli obiettivi intermedi che possono scongiurare il rischio» che si ripeta il fallimento delle politiche connesse al reddito di cittadinanza.
Ma il ministro difende la misura voluta dai Cinque Stelle: «I sussidi servono per intervenire quando il lavoro non c’è o quando una persona non può lavorare, non per creare lavoro. Questo misunderstanding ha accompagnato la nascita di questa misura che ha effettivamente sostenuto persone contro la povertà. La riforma delle politiche attive è un’altra cosa e deve valere per tutti, non solo per i percettori di reddito. Quella dei navigator era una scorciatoia figlia di quell’equivoco. Quanto agli abusi, li stiamo scoprendo grazie a una giusta intensificazione dei controlli che la manovra rafforza, ma nessuno ha mai chiesto di abolire altri istituti perché qualcuno se ne approfittava. Sapendo che la madre di tutte le distorsioni è l’evasione fiscale».
E a chi se la prende con il reddito come disincentivo al lavoro e incentivo al lavoro nero, risponde: «Dietro questa accusa c’è un’ideologia per cui i poveri sono poveri per colpa loro e chi non trova lavoro non lo trova perché non lo cerca. Io non penso sia così. Credo che i poveri siano la conseguenza di un sistema ingiusto e che dobbiamo chiederci se davvero il massimo desiderabile possa essere uno stipendio di qualche centinaio di euro. O se sia accettabile che in questo Paese ci sia tanto nero». La lotta al sommerso «è uno degli impegni assunti con il Pnrr. E stiamo lavorando per rendere più compatibile e conveniente il lavoro anche saltuario o precario rispetto alla percezione del reddito».
Altro capitolo: il salario minimo. «Sto seguendo la discussione a livello europeo e quella sui pericoli per la contrattazione collettiva è una remora che accomuna tutti i Paesi con una forte tradizione sindacale», dice Orlando. «Si teme che il salario minimo possa indebolire la contrattazione tra le parti sociali con un effetto di diminuzione potenziale dei salari in alcuni settori». Ma, spiega il ministro, «credo ci siano le condizioni per tenere insieme contrattazione e salario minimo. Uno dei passaggi perché questo avvenga è lavorare sull’effettiva titolarità di chi fa le trattative. Quello che in questi anni è successo è un’esplosione di contratti pirata, fatti da sigle con pochissimi iscritti, ma che riescono a condizionare il mercato del lavoro».
E qui Orlando torna a evocare la legge sulla rappresentanza sindacale. Parla di «criteri minimi per l’individuazione della rappresentanza. La direttiva europea istituirà l’obbligo di salario minimo per i Paesi con meno del 70% di rappresentanza sindacale. Per gli altri, quindi anche per noi, si chiederanno criteri adeguati».
Sul Quirinale, Orlando non si esprime: «Ne parleremo dopo il discorso di Capodanno del capo dello Stato». Ma «in un Parlamento come questo, con un gruppo misto di 100 persone, qualunque scenario è possibile: è bene che il centrosinistra prenda tutte le precauzioni», dice. «Arrivarci preparati non significa parlarne nelle interviste, ma coordinare le forze. Le prime votazioni saranno determinanti: non possiamo arrivarci in ordine sparso». Ovvero come si è arrivati sul ddl Zan, in pratica.
E Italia Viva che fine farà? Sarà dentro o fuori il Nuovo Ulivo immaginato dal segretario del Pd Enrico Letta? «Non possiamo ricostruire il bipolarismo, dopo l’esplosione del populismo, in base a quello che c’era prima», risponde Orlando. «Serve un campo largo in grado di drenare anche spinte che erano andate verso il populismo. Chi vuole l’arrocco, chi prova a marginalizzare, condanna il sistema invece di rigenerarlo. Bisogna pensare a quel che Benedetto Croce diceva del fascismo: una volta passata l’onda, non può tornare tutto come prima. Bisogna capire le cause profonde, quel che va cambiato nel nostro assetto di inclusione sociale. Partire dall’idea che non è il populismo ad aver messo in crisi la democrazia liberale, ma è quest’ultima che è entrata in crisi di fronte ai cambiamenti globali, alla crescita delle diseguaglianze generando il populismo. Chi ci sta a ricostruire questo campo è benvenuto, ma non parlerei di nuovo Ulivo: una parola che guarda nello specchietto retrovisore della storia».
Orlando conclude: «Sono convinto che andrebbe costruita un’altra ipotesi di legge elettorale. Non ho mai nascosto che la ricomposizione di un campo debba avvenire per scelta, non per necessità, perché i campi ricostruiti per necessità portano instabilità e rischiano di rendere subalterni i riformisti all’interno dei poli. Anche qui, se guardiamo all’Europa, ci rendiamo conto che i sistemi maggioritari sono quelli che hanno retto peggio all’avvento del populismo».