Dove finiscono i soldiFinanziare progetti per il clima è più difficile di quanto si possa immaginare

I Paesi sviluppati hanno promesso 100 miliardi di dollari per aiutare gli Stati più poveri a ridurre le emissioni. Ma non è stato chiarito in modo chiaro e netto come saranno spesi questi fondi

AP / Lapresse

Le parole di Narendra Modi alla Cop26 di Glasgow hanno occupato le prime pagine dei giornali in tutto il mondo. Il primo ministro indiano ha detto che il suo Paese raggiungerà il traguardo del net-zero (quindi diventerà a impatto zero) nel 2070, vent’anni più tardi rispetto agli obiettivi di Europa e Stati Uniti. La motivazione l’ha espressa in modo chiaro e diretto: i responsabili dell’attuale crisi climatica sono i Paesi più sviluppati, sono loro a doversi impegnare di più.

L’onere del mondo occidentale è anche economico: la richiesta dei Paesi in via di sviluppo è un finanziamento da un trilione di dollari l’anno, cioè mille miliardi di dollari che dovrebbero finanziare progetti per la tutela ambientale e l’adattamento climatico nei loro territori.

Quella cifra dovrebbe essere il prezzo di un risarcimento, ha detto il ministro dell’ambiente di Antigua e Barbuda Molwyn Joseph, che è sulla stessa linea di Modi: «Non chiediamo elemosine, chiediamo un compenso per i danni che sono conseguenza delle emissioni dei Paesi sviluppati».

Proprio ad Antigua a breve inizieranno lavori per rinforzare i tetti degli ospedali e le finestre delle stazioni di polizia contro gli uragani: il cambiamento climatico rende le tempeste tropicali più intense e più devastanti, e gli abitanti dell’isola caraibica devono prepararsi in qualche modo. I fondi per questo intervento – circa 46 milioni di dollari – sono una piccola parte dei tanti investimenti globali destinati a obiettivi simili.

Alla Cop26 di Glasgow i finanziamenti per il clima sono uno dei temi centrali. Ieri il Financial Times ha pubblicato un lungo articolo, scritto a quattro mani dall’inviata Leslie Hook e da Joanna S. Kao, in cui racconta le difficoltà nel dare forma e valore a questi investimenti.

«Manca un vero accordo su come spendere il denaro, su chi dovrebbe riceverlo o su come assicurarsi che venga utilizzato in modo efficiente. C’è persino una disputa su come dovrebbe essere misurata l’efficacia dei progetti e cosa dovrebbe essere considerato come investimento per il clima», si legge nell’articolo.

Nel 2009 le nazioni più ricche del mondo avevano promesso lo stanziamento di almeno 100 miliardi di dollari l’anno – molto meno del trilione di cui si parlava – per limitare il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi centigradi, posizionando l’asticella idealmente a 1,5 gradi. Ma l’obiettivo economico non è stato raggiunto, le promesse non sono state mantenute.

Oggi la maggior parte dei leader politici sembra andare d’accordo sulla necessità di garantire maggiori investimenti per proteggere il pianeta. Ma poi manca tutto il resto.

Da Glasgow, molti Paesi sviluppati – come Italia, Giappone, Regno Unito e Danimarca – hanno già fatto sapere di voler perfezionare i loro impegni climatici. Stanno arrivando anche più finanziamenti privati. E, ancora, decine di miliardi di dollari arriveranno dalle banche multilaterali di sviluppo per permettere ad alcuni Stati di ridurre l’uso del carbone come fonte energetica.

Poi emergono i problemi. «Una delle maggiori criticità riguardo l’obiettivo di 100 miliardi di dollari – spiega il Financial Times – è nel definire i progetti, chi può decidere cosa conta e cosa no». I Paesi donatori hanno usato quest’incertezza a loro vantaggio: i dati dell’Ocse rivelano che i finanziamenti per il clima hanno raggiunto solo 79,6 miliardi di dollari nel 2019; i calcoli di Oxfam suggeriscono che le cifre siano ancora più basse.

I 100 miliardi di dollari fanno parte di un’eredità quasi trentennale, che risale alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992: in quell’occasione si decise che i Paesi più sviluppati – cioè quelli che producono maggiori emissioni – devono pagare per aiutare i Paesi in via di sviluppo a combattere il cambiamento climatico (condizione che poi sarebbe stata ripresa praticamente in qualunque accordo successivo).

Ma non è sempre andata bene. Nel protocollo di Kyoto del 1997 è stato introdotto il Clean Development Mechanism, che ha contribuito a incanalare centinaia di milioni di dollari in progetti legati al clima nei Paesi in via di sviluppo. Solo che gli studi successivi hanno rivelato un uso distorto di questo meccanismo: «Un’analisi del 2017 dell’Unione europea ha rilevato che l’85% dei progetti del Clean Development Mechanism non ha avuto l’impatto previsto sulle emissioni», scrive il Financial Times. E quando i progetti sul clima vanno male è uno spreco di denaro, ma anche un problema per il pianeta.

Allora per l’obiettivo di 100 miliardi di dollari si è adottato un approccio leggermente diverso: i finanziamenti vengono incanalati attraverso i programmi di aiuto già esistenti e attraverso gli istituti finanziari dedicati all’aiuto dei Paesi più poveri.

L’Onu ha anche istituito un fondo per migliorare la distribuzione dei 100 miliardi di dollari. Il Green Climate Fund è diventato il più grande fondo mondiale pensato ad hoc per il clima, e ha raccolto circa 18 miliardi dal 2010. Ma neanche questo è riuscito a risolvere tutti gli intoppi.

In generale, fa notare il Financial Times, gli investimenti destinati alla tutela ambientale sono soggetti a sprechi, corruzione e inefficienza – problemi che, tra l’altro, riguardano tutti i fondi destinati allo sviluppo dei Paesi in difficoltà.

Un’altra criticità è dover dimostrare la validità dei progetti che dovrebbero ottenere i fondi: «Le persone che lavorano nel settore – si legge sul quotidiano britannico – sostengono che i progetti devono essere “trasformativi” e innescare cambiamenti sistemici, e che non ci si può limitare a costruire edifici e ponti».

Ma sono risultati difficili da misurare, è evidente che tutte quelle stime siano soggette alla volatilità delle previsioni: se si investono 10 milioni di dollari in una rete di autobus più efficiente in una qualsiasi capitale mondiale, come fanno gli scienziati a misurare il risparmio/taglio in termini di emissioni?

Non è un caso che nessuno abbia mai misurato l’impatto reale di tutti gli investimenti per il clima fatti negli ultimi anni.

Alla Cop26 si sta discutendo anche di come valorizzare i futuri investimenti – provenienti da tutte le fonti possibili – destinati a progetti di riduzione delle emissioni. «Una nuova ondata di denaro sta iniziando a muoversi verso nuove proposte per il clima, e crescono gli investimenti privati: ad esempio c’è un fondo di BlackRock da 600 milioni di dollari per il clima», scrive il Financial Times.

Ci sono molti progetti che saranno argomento di discussione a Glasgow. Ma i Paesi in via di sviluppo hanno già lanciato l’avvertimento: potrebbe essere troppo poco, potrebbe essere troppo tardi.

In Scozia, nei prossimi giorni, inizieranno i negoziati su come fissare un nuovo obiettivo di finanziamento del clima più ampio per il 2025, anche prima di aver raggiunto i 100 miliardi di dollari.

«Dal momento che si tratta di una questione politica» – conclude il Financial Times – «questo grande investimento sarà oggetto di accesi dibattiti. Anche se ci sono dubbi sul fatto che il denaro possa essere speso in modo efficace, e su come dovrebbe essere distribuito, i politici e gli attivisti per il clima ammettono che nessuno ha ancora trovato una soluzione migliore. Per quanto imperfetto, questi fondi sono una parte centrale della lotta al cambiamento climatico, e anche la più difficile da risolvere».

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