In Italia la tradizione del sedersi a tavola, dalle trattorie di quartiere ai ristoranti più rinomati, si porta dietro una serie di abitudini e consuetudini riguardanti più aspetti del pasto: il servizio, le ricettazioni, la struttura del menu, la mise en place più o meno ricca. Tra queste, la voce coperto è sicuramente una delle eredità del passato più diffuse nel mondo della ristorazione. Voce di costo che ha fatto spesso parlare di sé, dividendo le opinioni di ristoratori e avventori e per le quali ancora oggi manchiamo di una regolamentazione ufficiale. Partiamo dall’inizio.
Che cosa si intende per coperto e che cosa invece erroneamente si associa a questo termine? Storicamente, nel Medioevo, quando ancora gli osti consentivano ai clienti di portarsi il proprio “fagotto” di cibarie da casa, il coperto indicava letteralmente il posto occupato per mangiare. L’uso di tavoli, sedie, posate, eventuali tovaglioli veniva calcolato come voce coperto, mentre risultava incluso nel conto finale qualora si fosse ordinato da mangiare in loco. Nel corso del Novecento si è visto spesso includere sotto questa denominazione anche l’acqua e il pane. Come sappiamo, quest’ultimo è un elemento caratteristico di qualsiasi tavola da pranzo italiana, ma non è usanza comune all’estero. I ristoratori, un tempo, accettavano il fagotto domestico perché la maggior parte del guadagno arrivava dal vino consumato per pasteggiare – che spesso e volentieri abbondava! In Italia, a distanza di anni, abbiamo ancora viva questa prassi. E all’estero, come funziona? Ci sono delle differenze: ad esempio in Francia, dal 1987, un decreto stabilì che nei prezzi esposti al pubblico dovesse essere già compreso coperto, servizio, pane e una caraffa d’acqua. Nella maggior parte dei casi esiste una voce servizio – su cui torneremo più avanti – in cui rientrano teoricamente quei costi che in Italia assimiliamo al coperto. Ad oggi vi basti sapere che da Nord a Sud della penisola vi sono deroghe a livello regionale e comunale. A Roma ad esempio, nel 1995 apparve un’ordinanza del sindaco che vietava la voce coperto, sostituendola con pane e servizio. Una successiva legge regionale del 2006 ha poi vietato queste due voci dando la possibilità di indicare servizio. Una cosa è certa: il ristoratore è obbligato a esporre l’eventuale costo del coperto in menu, in modo tale che sia esplicitato e dichiarato. La stessa voce deve, nel caso, apparire anche nello scontrino fiscale (quando) rilasciato in uscita.
In media paghiamo dai 2 fino ai 5 o addirittura 7 euro di coperto a persona. Seppur sia chiaro ormai che si riferisce al costo di utilizzo e pulizia del tovagliato e – qualora non indicato separatamente – di un eventuale cestino del pane, non tutti i ristoratori si comportano correttamente. E, aggiungiamo, non a tutti i clienti questo modus operandi sembra lecito. Premesso che spetta al proprietario di un esercizio commerciale scegliere se usare tovagliette usa e getta o tovaglie di stoffa e che dovrebbe essere scontato usufruire della posateria di un ristorante senza portarsela da casa, non sembra così chiaro il perché questa spesa debba “ricadere” sul cliente. È un po’ come se andassimo dal barbiere a farci barba e capelli ma dovessimo portarci da casa forbici, pettine e altri strumenti del mestiere. È previsto che li fornisca lui, provvedendo a lavarli e sterilizzarli. È altrettanto vero che ci siamo ormai (male) abituati a finire interi cestini di pane prima ancora che ci venga portato l’antipasto. E con la sempre più attenta ricerca sui fornitori, una piccola produzione di pane fatto in casa di diverse tipologie, anche il pane non è più semplice pane. Ma di grani antichi, integrale, fatto con lievito madre, a lunga lievitazione. È un prodotto artigianale di ricerca e cura, selezionato e proposto alla clientela con la stessa attenzione di tanti altri piatti. Dargli un valore economico è più che corretto e molti preferiscono inserirlo nella voce coperto anziché in una dicitura a parte. La domanda sorge spontanea: siamo veramente pronti a pagare un cestino del pane? Forse è più facile che da qui scaturisca una nuova diatriba sul pane a pagamento. Quindi qual è la scelta giusta? Difficile dare una risposta univoca. Indubbiamente, sul bilancio finale, i coperti totali riscossi o non incassati possono fare la differenza per il ristoratore. Non pesa allo stesso modo il costo di una selezione di pane. Al netto delle possibili considerazioni sul tema, resta importante tenere distinti coperto e servizio. Mentre il primo risulta a discrezione del ristoratore, il servizio è un extra riconosciuto al cameriere e/o allo staff di sala a discrezione del cliente. A fronte dell’attenzione ricevuta per tutto il corso della cena, di una buona gestione di eventuali problematiche o difficoltà o anche solo per l’efficienza dimostrata nei confronti del tavolo, si usa lasciare una mancia. Generalmente, in Italia, il servizio corrisponde a una percentuale variabile tra il 10% e il 20% del conto. Così come vi sono molti paesi particolarmente tips friendly (vedi Francia e Germania) ve ne sono altri in cui la mancia è obbligatoria: Australia, Stati Uniti, Canada. Qui, per evitare l’empasse al momento del pagamento, troviamo spesso e volentieri il servizio indicato nel conto finale, in una voce a parte. È il service charge, e si aggira tra il 15% e il 20% (con picchi fino al 22) e si paga insieme al resto del conto. Ci immaginiamo (e auguriamo) che venga almeno in parte ripartito tra i membri dello staff in un secondo momento.
Consapevoli del fatto che non vi siano risposte certe e risolutive, speriamo di aver chiarito qualche luogo comune sul tema. Se le discussioni per l’abolizione del coperto sono ancora più che attuali, allo stesso modo non vi è alcuna chance –almeno non all’orizzonte – affinché il riconoscimento di una mancia al personale si faccia prassi comune e diffusa. Nell’attesa di possibili cambiamenti, restiamo curiosi di andare fuori a cena e osservare come coperto e pane sono affrontati e gestisti dai più acuti e affermati ristoratori italiani.