Nuovi dirittiLa libertà di disporre della propria vita non può essere assoluta

Agevolare il decesso di chi è irreversibilmente malato non è più reato. Ma deve essere accertato da un organismo sanitario terzo e pubblico, come nel caso delle Marche. Siamo sicuri di voler concedere davvero una scelta senza limiti agli individui? Forse dovremmo pensare a tutelare le persone più condizionabili

Mauro Scrobogna /LaPresse

La vicenda di “Mario” (nome di fantasia), il paraplegico cui il comitato etico dell’Azienda Sanitaria delle Marche ha riconosciuto il diritto di morire dopo dieci anni di sofferenza irreversibile, ha fatto irruzione sulla scena politica con effetti che ricadono sia sul referendum che i radicali hanno promosso per consentire legalmente l’eutanasia (e che ha raggiunto agevolmente il traguardo delle firme necessarie al contrario di quelli sulla giustizia) sia sulla questione sensibile della possibile introduzione di un obbligo vaccinale generalizzato.

Sono temi apparentemente eterogenei e contrastanti, in realtà hanno un tratto in comune: riguardano diritti fondamentali come l’autodeterminazione, la salute, la libertà personale. 

Vediamo di chiarire i vari aspetti: la drammatica storia di Mario costituisce un effetto della famosa sentenza della Corte Costituzionale 292/19, con la quale la Consulta rispose al quesito posto dalla Corte di Assise di Milano nel processo contro il radicale Marco Cappato che aveva accompagnato in Svizzera a morire DJ Fabo, una storia che aveva scosso il paese e che determinò il “giudice delle leggi” a intervenire in prima persona contro l’inerzia del legislatore paralizzato dai veti dei partiti.

Si trattava di modificare, o meglio di «manipolare», l’art. 580 del codice penale che punisce tuttora come «istigazione al suicidio» due condotte profondamente diverse quale quelle di colui che volontariamente spinge al suicidio altri e chi si limita ad agevolare e rendere possibile una libera determinazione di uccidersi.

La storia di DJ Fabo consentiva di poter intervenire in una situazione di irreversibile sofferenza umana, nella scia peraltro della legge 22 dicembre 2017 numero 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), approvata anch’essa a seguito di due sentenze del Gup di Roma e della Cassazione civile sui casi Welby ed Englaro, nonché di un’altra pronuncia della stessa Consulta in tema di consenso informato. 

La legge 219 del 2017 riconosce, a ogni persona capace di agire, il diritto di rifiutare o di interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche «i trattamenti d’idratazione e nutrizione artificiale».

La Cassazione ha ritenuto che non debba più essere punito chi, con le modalità previste dalla legge 219 del 2017 sul consenso informato e il rifiuto del trattamento sanitario, «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente».

La Corte richiama i fondamentali articoli 2, 13 e 32 (i diritti inviolabili, la libertà personale e la salute), ma pone dei limiti ben precisi alla autodeterminazione dell’uomo rispetto al governo della propria vita: egli ha diritto a una vita dignitosa ma non alla libertà di lasciarsi morire se non nelle condizioni d’irreversibile sofferenza che la Consulta indica.
Con chiarezza i giudici scrivono che
«dall’articolo 2 della Costituzione – non diversamente che dall’articolo 2 della Corte europea dei diritti umani – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».

A seguito di tale pronuncia, l’articolo 580 del codice penale è cambiato e quindi agevolare la morte di chi è irreversibilmente malato non è più reato se tale condizione venga accertata da un organismo sanitario terzo e pubblico (un collegio medico o una commissione etica come nel caso di Mario).

I legali di Mario e dell’Associazione Luca Coscioni, gli stessi del caso di DJ Fabo, hanno fatto ricorso di fronte a un primo rifiuto della ASL di Ancona al giudice, con un provvedimento di urgenza con cui il tribunale del capoluogo ha riconosciuto il diritto a che l’organismo sanitario (l’ASL per il tramite del proprio organismo etico) valutasse la sussistenza delle condizioni di salute legittimanti l’accoglimento della richiesta.

La sentenza del 2019 della Consulta non ha però soddisfatto i sostenitori di una scelta più radicale di totale libertà di disporre senza limiti della propria vita e della propria morte, gli stessi che hanno promosso un’iniziativa referendaria tesa alla modifica dell’articolo 579 del codice penale che vieta l’omicidio del consenziente che non versi nelle condizioni di malattia indicate dalla Legge sul consenso informato e dalla sentenza su DJ Fabo.

L’intervento richiesto dai promotori della consultazione referendaria renderebbe punibile l’omicidio di chi vi consenta solo «se il fatto è commesso contro un soggetto vulnerabile (minore, infermo di mente, in condizione di deficienza psichica) o il cui consenso sia stato estorto o carpito».

Si tratterebbe dunque di un via libera all’eutanasia sulla base della sola richiesta dell’interessato, un tema drammatico i cui si scontrano esigenze diverse: il dramma di chi soffre comunque anche del mal di vivere, del male oscuro spesso doloroso quanto la malattia del corpo, e allo stesso tempo il dovere dello Stato di proteggere i soggetti più deboli dalla sopraffazione e dall’egoismo di chi può pensare alla sofferenza degli altri come a un inutile fastidio di cui disfarsi.

Inutile girarci intorno: un soggetto debole dal punti di vista psichico, ad esempio, o anziano e sofferente, può essere considerato veramente libero in una scelta del genere, non condizionabile? Oppure, proprio per questo, dovrebbe ricevere una più stringente tutela?

Proprio questo profilo, che cela il bisogno presente nella società attuale di una totale egoistica libertà, porta a una ricaduta su un una materia incandescente come l’obbligo vaccinale che oggi si ventila come estremo e sempre più incombente rimedio alla minaccia di una nuova ondata di pandemia.

A ben vedere i temi sono gli stessi: chi rivendica la totale libertà di disporre della propria e altrui vita non è dissimile da chi reclama il diritto di rifiutare un vaccino incidendo sulla salute degli altri.

Alla fine è la stessa visione egocentrica e assolutistica della vita con un tratto comune che bene ha colto l’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick in un’intervista sulla Stampa a Grazia Longo: l’indifferenza a un dovere di solidarietà verso i più deboli che la stessa Costituzione prevede e tutela nell’articolo 2 e che, secondo il giurista, legittima anche la scelta estrema dell’obbligo vaccinale.

L’indifferenza è il vero muro che rischia di uccidere la libertà di tutti, e va difesa: anche contro l’egoismo scambiato per una legittima pretesa di una falsa democrazia.

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