Il quadro politico è sempre più sfasciato, le cosiddette coalizioni sbrindellate e i conati di centro non hanno successo. Il centrosinistra non ha avuto nemmeno il tempo di ringalluzzirsi per la vittoria nelle grandi città che si è subito auto-massacrato sulla legge Zan e anzi, con la rottura tra Enrico Letta e Matteo Renzi, in questo momento non esiste più, al massimo c’è un front populaire dei poveri con Letta-Bersani-Conte.
E pensare che il casus belli della Zan poteva essere evitato se, come ha detto ieri sera Romano Prodi da Fabio Fazio, sarebbero bastate piccole modifiche: quelle che lo stesso Zan non ha messo sul tavolo nel momento decisivo.
Sarà molto difficile ricucire i rapporti politici – quelli umani sono saltati da quel dì – tra il segretario del Pd e il leader di Italia viva (in più c’è Carlo Calenda che a giorni alterni critica entrambi): forse ci proveranno i riformisti dem di Base riformista e infatti Lorenzo Guerini e Giorgio Gori invitano a guardare avanti a differenza di quanto predicano Francesco Boccia, Monica Cirinnà, il malcapitato Alessandro Zan e altri della cerchia nazarena che ormai considerano Renzi un reazionario e un traditore.
Da questo punto di vista, a mente fredda, il Pd dovrà un po’ chiarirsi le idee: intende davvero andare avanti solo con LeU e M5s, lanciandosi nella meravigliosa prospettiva di conquistare se va bene il 30-35 per cento, oppure pensa di riaprire un discorso con Italia viva, Azione, gli europeisti di Forza Italia (in verità datisi alla fuga in occasione della Zan), o comunque di fare qualcosa per evitare lo splendido isolamento in cui si sta cacciando all’ombra di battaglie identitarie che non hanno gambe?
E ovviamente un chiarimento lo si attende, al Festival de Linkiesta il 13 novembre e alla Leopolda la settimana successiva, da Renzi, che in sintesi ha di fronte tre strade: andare a destra, come vaticinano Boccia e i duri del Nazareno; restare in mezzo al guado (ma per fare che?); o stare nel campo del centrosinistra con la propria piena autonomia di idee e di iniziativa. Ma è difficile che questi chiarimenti verranno esplicitati prima della partita parlamentare per il Quirinale: fino ad allora sarà tutto un bla bla bla, cioè un ulteriore elemento di instabilità del quadro politico nel momento più importante della legislatura, l’elezione del capo dello Stato.
Dall’altra parte non è che le cose vadano meglio, a meno che non ci si lasci ipnotizzare dalle cartoline di Villa Grande, quei dépliant che immortalano il nuovo bunker di Silvio Berlusconi sull’Appia antica con i cagnolini e i bacini tra Salvini e Meloni e Salvini e Berlusconi. Lì si sono pure riuniti i ministri di Forza Italia e Lega in una specie di Gran Consiglio di cartapesta che in teoria dovrebbe avere un qualche peso nella compagine di governo ma ha solo l’obiettivo di comunicare un compatto bla bla bla intorno al vecchio re che si vorrebbe mandare al Quirinale.
“Ditegli sempre di sì”, era una commedia di Eduardo, morto esattamente 37 anni fa, un titolo che dovrebbe campeggiare su Villa Grande. Tutto è finto infatti, come in quella lontana commedia, perché la destra continua ad avere tre linee o meglio quattro o cinque (Meloni, Salvini, Giorgetti, Berlusconi, Carfagna) e queste contraddizioni, a voto segreto, si faranno sentire, altro che Berlusconi presidente della Repubblica.
Infine c’è lui, Giuseppe Conte, alla testa di 200 parlamentari ma senza una linea concreta. L’ultima – mandare Draghi al Colle senza poi votare – è un nonsense assoluto, perché ovviamente nessuno degli onorevoli grillini si fiderà mai delle promesse, e nel timore delle urne in tanti impallinerebbero il presidente del Consiglio.
Il quale, se così si può dire, governa più di prima. Persino Maurizio Landini, se non ha deposto le armi, quanto meno le ha lasciate prive di cartucce, lo sciopero generale non ci sarà e la protesta sarà meno forte e dunque non destinata a grandi esiti.
La manovra, come tutte le manovre, lascia qualcuno insoddisfatto ma il taglio delle tasse è consistente, mentre la ripresa sarà di oltre il 6 per cento. A quanto pare, nei mille meandri di un G20 una volta tanto non bla bla bla, più di un leader ha fatto capire di ritenere una sciagura l’eventualità che Draghi lasci la guida del governo italiano, e il particolarissimo calore riservatogli da Joe Biden ha evidenziato che gli Stati Uniti ormai contano praticamente solo su di lui, almeno fino a quando Emmanuel Macron non ha avrà rivinto le presidenziali francesi.
Dunque, per un allineamento delle stelle davvero imprevedibile, Mario Draghi è diventato il punto di equilibrio sia nella politica interna che in quella internazionale. Tutto il resto, sì, è bla bla bla.