Storia riveduta e correttaLo Stato è la forma definitiva e irreversibile di organizzazione sociale?

Fin dalle prime civiltà l’uomo ha creato diversi tipi di strutture politiche, più o meno egualitarie, più o meno funzionanti. Nuovi studi riguardo alle popolazioni più antiche e floride dimostrano che autorità e burocrazia così come le intendiamo oggi non sono indispensabili per lo sviluppo umano e tecnologico

AP / Lapresse

I primi insediamenti umani di cui abbiamo conoscenza sono piccoli gruppi di cacciatori che vivevano in uno stato di natura. La successiva diffusione dell’agricoltura, con la produzione di eccedenze, la crescita degli insediamenti e la lenta introduzione della proprietà privata diedero vita alle prime civiltà: le bande si allargarono in tribù, le società si stratificarono con capi, guerrieri, figure religiose. Solo qualche migliaio di anni dopo, con la scienza, il capitalismo e la rivoluzione industriale, avremmo assistito alla creazione del moderno Stato burocratico.

L’evoluzione lineare e ininterrotta della storia – dell’uomo e della società – è il punto di partenza del nuovo saggio “The Dawn of Everything: A New History of Humanity”, scritto a quattro mani dall’antropologo David Graeber e dall’archeologo David Wengrow. L’opera ripercorre l’evoluzione della civiltà umana, rileggendola in una chiave diversa. Ne ha parlato l’Atlantic in un lungo articolo firmato da William Deresiewicz.

«La chiave di lettura sviluppata per la prima volta da Hobbes e Rousseau e poi elaborata da pensatori successivi, secondo Graeber e Wengrow, è completamente sbagliata», scrive Deresiewicz. «Attingendo da recenti scoperte archeologiche, nonché da una lettura approfondita di fonti storiche spesso trascurate (la loro bibliografia è di 63 pagine), i due smantellano non solo ogni elemento di quelle ricostruzioni, ma anche i presupposti su cui poggiano», si legge nell’articolo.

Il libro non nega che l’uomo abbia avuto, nell’ordine, bande, tribù, città e Stati; agricoltura, disuguaglianza e burocrazia. Ma afferma che le connessioni tra tutte queste cose possono essere riviste.

Ancora più importante, sottolinea l’Atlantic, gli autori demoliscono l’idea che gli esseri umani siano oggetti passivi di forze materiali, come se si muovessero impotenti lungo il nastro trasportatore dell’innovazione che ci porta dal Serengeti alla meccanizzazione.

L’uomo si è sempre trovato dinanzi a delle scelte, le ha valutate e ponderate, poi ha preso la strada che voleva. Graeber e Wengrow offrono una storia degli ultimi 30mila anni che non è soltanto molto diversa da qualsiasi cosa a cui siamo abituati, ma anche molto più interessante, strutturata, sorprendente, paradossale e stimolante.

«Secondo gli autori del libro », scrive Deresiewicz, «le società di cacciatori-raccoglitori erano molto più complesse e più varie di quanto abbiamo immaginato. Basta guardare alle sontuose sepolture dell’era glaciale, ai siti architettonici monumentali come Göbekli Tepe, nella moderna Turchia, che risale al 9.000 a.C. circa (e cioè ad almeno seimila anni prima di Stonehenge, oppure a Poverty Point, un insieme di massicci e simmetrici terrapieni eretti in Louisiana intorno al 1.600 a.C., una metropoli di cacciatori-raccoglitori delle dimensioni di una città-stato mesopotamica».

E poi, ancora, ci sono società amazzoniche che si spostano stagionalmente tra due forme completamente diverse di organizzazione sociale (piccole bande nomadi autoritarie durante i mesi secchi; grandi insediamenti agricoli durante la stagione delle piogge), e il regno di Calusa, che era una monarchia di cacciatori-raccoglitori trovata dagli spagnoli quando arrivarono in Florida.

Tutti questi scenari sono impensabili all’interno della narrativa convenzionale. Nessuno di questi gruppi, per quanto abbiamo ragione di credere, somigliava ai selvaggi che abbiamo costruito nell’immaginario collettivo.

«Il punto più importante è che i cacciatori-raccoglitori hanno fatto delle scelte – consapevoli, deliberate, collettive – sui modi in cui volevano organizzare le loro società: ripartire il lavoro, disporre della ricchezza, distribuire il potere. In altre parole, facevano politica. Alcuni di loro hanno sperimentato l’agricoltura e hanno deciso che non ne valeva la pena. Altri guardavano i loro vicini e decisero di vivere nel modo più diverso possibile», si legge sull’Atlantic.

Gli autori del libro portano questa nuova prospettiva attraverso le epoche che videro l’emergere dell’agricoltura, delle città, delle monarchie.

Nei luoghi in cui si è sviluppata per la prima volta, circa 10mila anni fa, l’agricoltura non si è imposta da subito, in modo uniforme e inesorabile. Gli insediamenti hanno preceduto l’agricoltura, non il contrario, come la storia convenzionale ci insegna.

Inoltre, la Mezzaluna Fertile ha impiegato circa tremila anni per passare dalla prima coltivazione di cereali selvatici al completamento del processo di coltivazione più complessa che aveva nel suo momento più fiorente. L’agricoltura precoce incarnava ciò che Graeber e Wengrow chiamano «l’ecologia della libertà»: la libertà di “entrare” e “uscire” dall’agricoltura, per evitare di essere intrappolati dalle sue esigenze o di essere messi in pericolo dalla fragilità ecologica che comporta.

E riguardo alle città viene smentita la visione che vuole un corposo apparato burocratico quale fondamentale strumento di controllo e supervisione delle popolazioni più grandi. Molte città primordiali, luoghi abitati da migliaia di persone, non mostrano alcun segno di amministrazione centralizzata: nessun palazzo, nessun deposito comunale, nessuna evidente distinzione di rango o ricchezza.

Vale soprattutto per le prime città comparse, come Taljanky, scoperta solo negli anni Settanta e situata nell’odierna Ucraina, che dovrebbe risalire all’incirca al 4.100 a.C., quindi centinaia di anni prima di Uruk (la più antica città conosciuta della Mesopotamia). L’aristocrazia probabilmente emerse in insediamenti più piccoli.

L’esempio più convincente di egualitarismo urbano proposto dagli autori di “The Dawn of Everything” è senza dubbio Teotihuacan, una città mesoamericana che quasi si potrebbe paragonare alla Roma imperiale per molti aspetti. Dopo essere scivolata verso l’autoritarismo, la gente di Teotihuacan ha cambiato bruscamente rotta, abbandonando la costruzione di monumenti e il sacrificio umano per la costruzione di alloggi pubblici di alta qualità. «Molti cittadini», scrivono gli autori del libro, «hanno goduto di uno standard di vita che raramente viene raggiunto in un settore così ampio della società urbana in qualsiasi periodo della storia, compreso il nostro».

La storia poi ci porta alla nascita dello Stato, con le sue strutture di autorità centrale riprodotte in forme diverse da regni di vaste dimensioni come imperi e repubbliche moderne – che presumibilmente rappresentano la forma culminante dell’organizzazione sociale umana.

Ma lo Stato non è una destinazione ultima e obbligata per le civiltà. «Lo Stato potrebbe non essere inevitabile. Per la maggior parte degli ultimi cinquemila anni, scrivono gli autori, regni e imperi sono stati esempi eccezionali di gerarchia politica, ma spesso erano come isole, circondate da territori molto più grandi i cui abitanti preferivano evitare sistemi di autorità fissi e onnicomprensivi», si legge sull’Atlantic.

Allora il libro di Graeber e Wengrow non vuole essere un saggio sull’abbattimento dello Stato come istituzione, non vuole valorizzare le tesi anarchiche. Ma è un testo che vuole sostituire la grande narrativa dominante della storia non con un’altra narrativa di sua concezione, ma con nuove sfumature, un’immagine appena visibile di un passato umano pieno di esperimenti politici e creatività.

E la domanda che dovremmo porci, e quella che si pongono gli autori, è: «Come ci siamo bloccati?». Si intende bloccati in un mondo di guerra, avidità, sfruttamento e sistematica indifferenza per la sofferenza degli altri.

La risposta di Graeber e Wengrow è tutta qui: «Se qualcosa è andato terribilmente storto nella storia umana, allora forse ha cominciato ad andare storto proprio quando le persone hanno iniziato a perdere quella libertà di immaginare e mettere in atto altre forme di esistenza sociale. Non è chiaro quante possibilità ci siano rimaste ora, in un mondo con decine o centinaia di milioni di popolazioni diverse. Ma siamo sicuramente bloccati».