Dalla sua casa romana alle pendici di Monte Mario, Goffredo Bettini, crediamo più per un fatto personale che per un ragionamento serio, vede che «dopo la vicenda della Rai c’è stata un’impennata di consensi per Conte» che, caso mai, per l’avvocato ha rappresentato il punto più mediocre della sua breve carriera, una zuffa di potere per un telegiornale, accidenti che statista.
Peraltro è stata la protesta più breve della storia, aveva detto che i grillini non sarebbero più andati in Rai e dopo pochi giorni, preso da una crisi d’astinenza, ha fatto marcia indietro. Una cialtronata.
Solo Bettini non si accorge che il Movimento Cinque stelle – è persino noioso ripeterlo per l’ennesima volta – è in una crisi probabilmente irreversibile o nel migliore dei casi estremamente seria da quando è sceso dai tetti di Montecitorio da dove sbraitava contro la Casta non trovando più una sua ragion d’essere: tanto è vero che ormai lo stesso Conte si è acconciato a guidare un partito molto più piccolo all’ombra della grande terrazza del Nazareno.
Lo certifica il sondaggio Winpoll del professor Roberto D’Alimonte che assegna al M5s un modesto 11%: dal 2018 avrebbe dunque perso per strada oltre 20 punti! Se questa è la tendenza, in assenza di miracolose ricette avvocatesche, il Movimento è destinato a scendere lo scalone d’onore della politica e a rintanarsi in qualche stanzetta attigua a quella del Pd, che sempre secondo questo sondaggio (e anche altre rilevazioni) comincia un pochino a illuminarsi superando il 20% e diventando il primo partito anche grazie al calo simultaneo della Lega e di Fratelli d’Italia a vantaggio di un redivivo Silvio Berlusconi.
E tuttavia l’Ulivetto Pd-M5s vede cambiare i pesi all’interno ma resta sempre lì, al 30-32%, cioè 6 punti sotto il centrodestra e dunque sic stantibus rebus perderebbe le elezioni. È chiaro che così non se ne esce. O il Pd recupera appieno la capacità di parlare a tutto l’elettorato, come avvenne solo con Walter Veltroni e poi con Matteo Renzi, o l’Ulivetto sarà sempre più asfittico, data l’inconsistenza di Conte e l’irrilevanza di Pier Luigi Bersani and friends.
Il professor D’Alimonte fa bene a misurare il centrosinistra (cioè l’Ulivetto Pd-M5s) senza i centristi o riformisti o liberaldemocratici o come li si voglia definire, di Italia viva, +Europa e Azione. Fa bene perché la proposta emersa alla Leopolda svincola Iv dal centrosinistra. Quest’area raggiungerebbe il 7%: i voti che mancano a Enrico Letta e Giuseppe Conte per vincere. Non ci vuole Pitagora per capire che se i riformisti raggiungessero un accordo politico-elettorale con il centrosinistra, quest’ultimo potrebbe battere la destra a trazione sovranista.
Sarà un ragionamento ingenuo ma è quello che fanno tutti quelli che non hanno intenzione di consegnare l’Italia a Meloni&Salvini.
Se le cose stanno come dice il sondaggio Winpoll, al di là di tutte le polemiche, strali, improperi un po’ da tutte le parti, Renzi starebbe dunque per raggiungere quella centralità e quella utilità marginale in grado di ribaltare le previsioni di una destra vincente. Certamente si tratterebbe di un percorso complesso, stante l’attuale enorme grumo di sospetti e recriminazioni degli uni verso gli altri ma il punto è capire, a partire dal primo test, quello della elezione del nuovo Capo dello Stato, se non solo Letta e Renzi quanto i militanti e gli elettori di Pd e Iv intendano verificare l’ipotesi di un accordo politico-elettorale che non annulli le differenze, anzi, ma costituisca un punto di forza contro la destra forse più estremista di sempre (in attesa che l’area carfagnana di Forza Italia dia un qualche segno di emancipazione).
Ma siccome i riformisti sono nati per fare difficili le cose facili, Carlo Calenda ha subito demolito l’idea di Renzi di un centro autonomo e riformista. Lo ha fatto in modo che è parso poco meditato. Tranchant. Persino offensivo («Chi se ne frega di Italia viva»). Forse perché era in tv e in tv ci si trasforma in mostri.
Ora è chiaro che Calenda, Renzi e tutta la compagnia cantante del riformismo italiano hanno tra le mani una responsabilità persino storica. Marco Taradash è tra i pochi ottimisti: Calenda «è un politico accorto e alla fine noi liberali riformatori libdem liblab ci alleeremo e alle elezioni faremo la differenza». Ma ci vuole un time out, quantomeno, perché così si va a consegnare il Paese ai quei sovranisti che a parole tutti vogliono combattere. E stavolta nessuno perdonerà chi avrà sbagliato.