Sud-ovest di Milano, nel pieno della Pianura Padana, a una decina di chilometri dal Ticino, 32.600 abitanti: è Abbiategrasso. Bella cittadina, nome curioso. Gli storici lo fanno risalire alla toponomastica celtica. Gli studiosi di etimologia propendono per una radice latina. La leggenda dà un’altra spiegazione. Più o meno intorno al 380, Ambrogio, vescovo eletto dal popolo (era un laico, funzionario imperiale) viene chiamato a Roma dal Papa. Pare che il problema fosse una questione di tasse che i milanesi tardavano a versare.
Accolto nel palazzo del Pontefice, il vescovo viene invitato ad attendere e fatto accomodare, si fa per dire, in uno stanzino spoglio, privo anche di un semplice attaccapanni dove appendere il mantello, che il sant’uomo, accaldato, vorrebbe togliersi. Così, senza scomporsi, Ambrogio decide di appendere l’indumento a un raggio di sole che filtra dalla finestra e che si mostra perfettamente adatto alla bisogna. A notare la situazione, a dire poco insolita, è il collaboratore del Papa, che corre a chiamare il Pontefice. A quel punto il problema dei balzelli viene risolto rapidamente, anche perché Ambrogio ha premura. In sua assenza – spiega – i milanesi si stanno perdendo il Carnevale: in ansia per il responso sulle tasse, hanno sospeso ogni festeggiamento e rischiano di infilarsi direttamente in Quaresima senza aver goduto di quella breve vigilia di allegria. E il vescovo vuole raggiungerli al più presto.
Il Papa si mostra comprensivo e concede ad Ambrogio e ai suoi fedeli una deroga: a Milano il Carnevale non terminerà al giovedì, come nel resto del mondo cristiano, ma proseguirà fino al sabato. Una bella notizia, che il vescovo porta di persona ai milanesi che gli sono venuti incontro sulla strada per Pavia: «Habeatis grassum», dice ai concittadini festanti, che potranno mangiare carne fino al sabato. Così, nella località dell’incontro sorgerà un borgo con quel nome. Leggenda, ovviamente. Ma sta di fatto che ancora oggi il Carnevale Ambrosiano arriva al suo culmine quando il resto della Cristianità è già in Quaresima e, forse per un mantello miracolosamente appeso a un raggio di sole, i milanesi possono festeggiare con carne e dolciumi quando gli altri sono già alle prese con il magro quaresimale.
Quello tra i Santi e il cibo è un rapporto stretto, che continua nei secoli: e se il miracolo di Sant’Ambrogio è stata la chiave per garantire carne e festeggiamenti ai milanesi, altri santi hanno operato miracoli direttamente… nel piatto.
Il potere della fede tra colombe e polli
Bisogna spostarsi ancora di poco da Milano, e avere a che fare con un santo, una regina e qualche piccione ben arrostito per spiegare la nascita della colomba come dolce simbolo della Pasqua. E bisogna spostarsi nei giorni precedenti la Pasqua del 612. Proprio allora San Colombano, nel suo lungo peregrinare per strade e città d’Europa, approdò in terra longobarda. L’abate irlandese, accompagnato dai suoi monaci e già circonfuso da un’aura di santità, venne ricevuto con tutti gli onori alla corte della regina Teodolinda che gli offrì un succulento pranzo.
Il menu, come prevedevano le abitudini del tempo, proponeva grande abbondanza di selvaggina arrostita. Si era però in periodo di Quaresima e la faccenda rappresentava un problema non da poco per i religiosi. Così Colombano e i suoi spiegarono alla regina che, pur allettati dalle appetitose portate, non potevano proprio mangiare quelle carni. Il rifiuto non piacque a Teodolinda, che ci rimase decisamente male. Il sant’uomo lo capì e propose una mediazione diplomatica: i monaci – disse – avrebbero mangiato la selvaggina soltanto dopo la sua benedizione. E così fu: Colombano alzò la destra nel segno della Croce e le carni si trasformarono miracolosamente in bianche colombe di pane, candide come le vesti dell’abate e dei suoi confratelli. Un prodigio evidentemente miracoloso che sbalordì la sovrana e le confermò le doti di santità del suo ospite, tanto da spingerla, in segno di devozione, a donare a Colombano il territorio di Bobbio, dove sorse l’abbazia che ancora oggi porta il nome del santo irlandese. Ma non solo. Da quel giorno prese il via la tradizione di festeggiare la Pasqua offrendo colombe di pane, che presto diventarono il dolce simbolo della giornata più importante della fede cristiana.
Un effetto simile ebbe la benedizione di San Nicola da Tolentino, che trasformò due quaglie ben cucinate in due svolazzanti e vivissimi uccellini: questo perché il frate non voleva contravvenire la sua strettissima astinenza, nemmeno dietro ordine del suo superiore che, preoccupato per la salute del sant’uomo, desiderava che mangiasse un po’ di carne.
Per assistere a un’altra resurrezione di volatile occorre restare in età medievale, spostandosi però fuori dall’Italia, lungo il Camino de Santiago. Molti pellegrini diretti in Galizia facevano tappa nel borgo di Santo Domingo de la Calzada, nella Rioja. La figlia di un oste della piccola cittadina si innamorò di un giovane pellegrino tedesco, Hugonel; non ricambiata, la fanciulla pensò di vendicarsi, nascondendo nel bagaglio di lui un vaso d’argento, per denunciarne il furto alla partenza del ragazzo. Questo, secondo le leggi dell’epoca, venne condannato a morte e impiccato.
Giunsero i genitori per vedere la salma di Hugonel, ma quando giunsero sul luogo dell’esecuzione udirono la voce del figlio annunciare loro un miracolo: Santo Domingo aveva salvato la sua vita innocente. I due si recarono allora a casa del governatore della città e gli riferirono l’accaduto, ma la risposta che ottennero fu a dir poco ironica; il “sindaco”, seduto a cenare, riteneva che il loro figlio fosse ancora vivo esattamente quanto il gallo e la gallina che lui aveva nel piatto. Ed ecco, in quello stesso istante, i due polli balzarono fuori del piatto e presero a cantare.
Ancora oggi nella cattedrale di Santo Domingo, in ricordo del prodigio, un piccolo pollaio in legno ospita un gallo e una gallina bianchi, vivi, che rompono l’austero silenzio della chiesa con le loro squillanti voci. E la città si presenta al visitatore con il motto Santo Domingo de la Calzada donde cantó la gallina después de asada, dove cantò la gallina già arrostita.
L’impossibile in pentola
La devozione popolare è pervasa di racconti miracolosi riguardanti il cibo. Ne è un esempio su tutti il miracolo delle noci, che Fra Galdino racconta nei “Promessi sposi”: «Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. “Che fate voi a quella povera pianta?” domandò il padre Macario. “Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna”. “Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie”. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettassero di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada: “Padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento”. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce».
Il racconto del Manzoni dice l’importanza del cibo, anche del più umile, in un mondo in cui non c’era certo abbondanza di prelibatezze da mangiare. E neanche da bere: celebre in questo senso è la storia di Giovanni, primo abate del convento di San Giovanni Evangelista di Parma. Siamo intorno all’anno Mille e il frate, avendo ricevuto in regalo un piccolo orcio di vino, vuole dividerlo con i suoi confratelli: in sedici ne bevvero, ma il fiasco rimase sempre pieno.
Cibo e santità si incontrano spesso nella cornice della natura, quasi a sottolineare come solo il rispetto per il creato sia la chiave per un’alimentazione sostenibile: San Biagio restituì a una donna, sano e salvo, il maiale che un lupo le aveva rubato, e quella, riconoscente, gliene offrì delle porzioni ben cucinate; San Francesco ributtò subito in acqua una tinca appena pescata che un pescatore gli aveva regalato: questa per la gioia di non essere stata mangiata, iniziò a seguirlo mentre il frate cantava le lodi del Signore, e se ne andò solo quando Francesco l’ebbe congedata; San vito fu nutrito da un’aquila che gli portava da mangiare durante un viaggio in mare. Infine San Gerardo: il santo monzese, in una gelida sera di gennaio, volle andare in Duomo per raccogliersi in preghiera come sua abitudine. Il sagrestano aveva però già sprangato il portone, e non volle aprire nemmeno dietro le insistenze del sant’uomo: «Sarei disposto ad aprirti di notte», disse, «solo se mi portassi un cesto di ciliegie». Cosa ovviamente impossibile in pieno inverno. Ma non per Gerardo, che il giorno dopo si presentò con abbondanza di dolcissimi frutti rossi per i custodi della cattedrale. Perché i santi sanno portare il profumo della primavera anche quando intorno ci sono solo nebbia e neve.