Non è facile capire cosa spinga Enrico Letta a perseguire con tanta tenacia l’obiettivo di rianimare in ogni modo il Movimento 5 stelle, fino all’altro ieri il principale avversario del Partito democratico e da domani, nella migliore delle ipotesi, suo principale concorrente. Ancora più difficile è capire perché mai, nonostante sia Luigi Di Maio ad avere compiuto gli unici passi di un qualche significato in direzione di una sia pur timida autocritica (sulla cultura della gogna, ad esempio) e di una sia pur parziale correzione di rotta (almeno da quando al governo c’è Mario Draghi), Letta insista a offrire ogni possibile sponda, nei Cinquestelle, proprio a Giuseppe Conte, persino quando è lui ad attaccare il governo (ad esempio sulla riforma della giustizia, smentendo l’accordo sottoscritto dai suoi stessi ministri, cioè da Di Maio).
Le ragioni politiche, culturali e psicologiche di una simile strategia meriterebbero forse un articolo a parte. Qui per il momento basta segnalare l’inanità dello sforzo. Perché c’è poco da fare, per quanto Letta si prodighi, da ultimo con la bizzarra idea di candidare Conte nel collegio lasciato da Roberto Gualtieri, l’imperizia dell’Avvocato del popolo finisce regolarmente per rendere vano ogni tentativo.
Così ieri è bastato che Carlo Calenda annunciasse l’intenzione di candidarsi contro di lui, con l’appoggio di Matteo Renzi, perché Conte si precipitasse a ordinare la ritirata, con una tempistica che non lascia dubbi sulle ragioni della fuga. Una figura non proprio brillante, per il leader dei Cinquestelle, che si dimostra tanto coraggioso quanto accorto: era così imprevedibile che Renzi e Calenda non sarebbero corsi ad appoggiarlo, per giunta nel collegio in cui alle ultime amministrative è andato meglio Calenda e sono andati peggio i Cinquestelle?
Resta comunque da capire come sia saltato in mente al Partito democratico di appoggiare una simile operazione, a tutti gli effetti una pura donazione di sangue a favore del presunto alleato, per poi farsi pure dire di no.
Una pensata che non promette niente di buono, comunque, per il futuro del centrosinistra, inteso come quel campo di forze che per principi, idee e politiche, fino al 2019, si è sempre contrapposto tanto al populismo del Movimento 5 stelle quanto al sovranismo della Lega, nonché a tutti i provvedimenti del loro governo, guidato indovinate da chi (un signore che allora si diceva orgogliosamente «populista» e «sovranista», con la stessa fermezza con cui pochi mesi dopo ha preso a dirsi europeista e cattolico-democratico, e con cui dopodomani, se fosse necessario per tornare al governo, siatene certi, non esiterebbe a definirsi antieuropeista e islamo-fascista, catto-comunista e filocinese o anche russofilo e liberal-anglicano).
Il punto è che fino a ieri, a sinistra, l’argomento principale in favore dell’alleanza con i Cinquestelle era l’assenza di alternative. Ma se proprio nel collegio dove Calenda ha preso più voti e i cinquestelle di meno il Pd sceglie di allearsi con i populisti, evidentemente, è caduta ogni finzione: non è una scelta obbligata, non c’è nessuna causa di forza maggiore. È una scelta libera e consapevole, con un significato che va ben al di là delle rivalità personali (che pure, certamente, hanno avuto un peso, e non piccolo, in questa deriva). Il succo è che tra i liberal riformisti e i populisti grillini, persino là dove meno gli converrebbe, il centrosinistra (o quel che ne resta) sceglie i populisti. Si sacrifica per amore, altro che matrimonio d’interesse. Con la beffa finale che sono pure i populisti a sfilarsi.
Dietro la candidatura di Conte c’è in ogni caso una questione di sistema. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, aveva detto infatti chiaro e tondo che sostenere l’ex presidente del Consiglio sarebbe stato un modo «per costruire un’alleanza in grado di vincere nel maggioritario». Proprio lui che, come segretario del Pd, si era solennemente impegnato per una riforma elettorale proporzionale, nel momento in cui si accodava al taglio populista dei parlamentari voluto dai cinquestelle. Sarebbe stato, anche solo questo, un ottimo motivo per votare Calenda e lasciare a casa Conte, nella speranza di riaprire la strada a un cambiamento della legge elettorale in senso proporzionale. E da questo punto di vista è quasi un peccato che la ritirata dell’avvocato non ne offra più l’occasione.
Ma forse la perdita maggiore è per lo spettacolo. Per il gusto di ascoltare i dirigenti del Pd, in campagna elettorale, accusare Calenda e Renzi di voler consegnare a Salvini il governo dell’Italia, nel momento stesso in cui invitavano i propri elettori a votare per l’uomo che ha governato l’Italia con Salvini fino all’estate di due anni fa. Uno spettacolo di indiscutibile valore pedagogico, di cui dispiace essere stati privati.