C’era una volta il gruppo dirigente. Quello che dava la linea, o almeno la suggeriva. Assolutamente centrale nella teoria e pratica comunista («La storia di un partito è la storia dei suoi gruppi dirigenti», scrisse lo storico Paolo Spriano) per non parlare della storia del cattolicesimo politico, oggi il gruppo dirigente non esiste più.
Nel quarto di secolo che lega l’avvento del berlusconismo a quello del grillismo i partiti sono diventati personali, leaderistici, a-democratici; e per converso anarcoidi, populisti, misteriosi, pasticcioni. O con la faccia del leader o senza faccia. Nessuno rimpiange Lenin ma anche Piero Fassino aveva ben presente l’importanza di un gruppo dirigente coeso, e lo stesso dicasi per Pierluigi Castagnetti e Franco Marini.
E infatti il Partito democratico, proprio perché erede delle storie comunista e democristiana fondate su formidabili gruppi dirigenti, dovrebbe sfuggire alla deriva personalistica tardoberlusconiana così come alla mistica populista dell’uno vale uno. E invece no, il meccanismo democratico che guida la formazione delle decisioni non è affatto chiaro. Prendiamo l’ultimo caso, quello sulla cannabis legale riproposto con forza dal referendum che si terrà nella prossima primavera.
È un tema di cui si discute da 40 anni, e il referendum è sul tavolo da molti mesi. Andrea Orlando è stato criticato per aver detto un timido «discutiamone». Pazzesco, su un tema così il Pd dovrebbe avere una linea da anni eppure una posizione ancora non c’è, ha detto Enrico Letta che «ora si apre il dibattito». Buongiorno, principessa.
Allora, chi conosce la storia e la pratica della sinistra si aspetta che si riunisca la segreteria, la direzione, magari l’Assemblea nazionale. Che ci siano riunioni sul territorio, che si esprimano liberamente le opinioni dei dirigenti, che esse circolino sui giornali, sui siti d’informazione, in tv: insomma, il buon vecchio caro dibattito. Con le sue belle spaccature e magari votazioni a maggioranza. Macché. «Useremo il metodo delle Agorà», ha ancora detto il segretario. Che ancora non si è capito se sia una raccolta di proposte avanzate più o meno da chiunque o se sia una rete politica di organizzazioni varie o se come sembra di capire dalle parole di Letta una consultazione online tipo Rousseau.
Come si dice in questi casi, il problema è politico: chi decide in un partito democratico (minuscolo) e segnatamente nel Partito Democratico (maiuscolo)? E qui si torna al punto di partenza: esiste un gruppo dirigente centrale del Pd in grado di discutere e orientare il dibattito interno e soprattutto di assumersi le responsabilità delle scelte? Anche per non lasciare il peso delle decisioni sempre e solo sulle spalle di Letta che in questi mesi – sarà un’impressione sbagliata – sembra un po’ solo contro il mondo, sarebbe importante una certa trasparenza: si è passati dal casinismo delle riunioni in streaming dell’era Renzi alla totale segretezza tipo Il nome della rosa.
Sino a pochi anni fa il cronista che seguiva le vicende dei Ds (per non parlare del Pci) conosceva a menadito la composizione della segreteria, le sue dinamiche e alchimie, perché le scelte e la battaglia politica interna nasceva lì, al vertice. Oggi non è certo un requisito per scrivere del Pd. Non è nostalgia ricordare quando un comunicato della segreteria poteva mettere in crisi un governo e c’era rispetto per una modalità meno opaca e più democratica di oggi, quando in teoria tutto è visibile.
Il risultato è che nemmeno gli iscritti sanno bene con chi interfacciarsi, tanto o decide Letta o entità come le Agorà (cioè sempre Letta perché non si tratta di un meccanismo democratico di partito). Così il Pd rischia di sommare quelle anomalie democratiche, per usare un eufemismo, che abbiamo richiamato: il leaderismo assoluto e il populismo dell’uno vale uno. Goodbye Lenin. Ma anche addio Gerardo Bianco e Massimo D’Alema.