The Big LieTrump si sta già preparando per frodare le elezioni del 2024

Attraverso una metodica azione attuata sulle leggi elettorali di ciascuno Stato americano, l’ex presidente sta preparando il terreno che gli consentirà di scippare le prossime presidenziali. Un piano preoccupante che va fermato

AP Photo/Evan Vucci, File

Quelle del 6 gennaio 2021 erano le prove generali, l’inizio e non certo la fine del suo lungo colpo di Stato. Donald Trump, fallito il suo tentativo di rovesciare il voto del 2020, ora guarda alle elezioni del 2024 e lavora a scippare la vittoria. Se non viene fermato fin da subito, come dimostra l’analisi accurata di Barton Gellman pubblicata sull’Atlantic, il risultato non sarà soltanto una sua seconda presidenza, ma anche il collasso della democrazia americana.

Dismessi gli sciamani con le corna (anche se il loro contributo al piano è stato, per certi aspetti, decisivo), questa volta l’architettura messa in campo è sofisticata: supera il dilettantismo degli ultimi mesi del 2020 – segnato dalle ridicole richieste di riconteggio, dal negazionismo a oltranza dell’ex presidente e dai goffi tentativi da parte dei fedelissimi squalificare la validità dei voti dei grandi elettori – e punta a un disegno di ampio respiro per controllare il sistema di conteggio e certificazione dei voti nei singoli stati americani. Entra cioè nei gangli (fragili) dei singoli meccanismi elettorali, soprattutto in quelli degli Stati in bilico (i celebri Swing States) più o meno gli stessi in cui, nel 2020 Trump aveva sostenuto la sua fallimentare battaglia fatta di ricorsi e carte bollate. Stavolta non vuole più sbagliare.

Come spiega Gellman, che per la sua analisi è entrato in contatto anche con sostenitori ed elettori del mondo trumpiano, l’ex presidente al momento sembra avere la partita in pugno. La prima mossa vincente è stata, contro ogni aspettativa, quella di mantenere il controllo della base. Anzi, di rinforzarlo: infiammati dalla retorica della Big Lie, la grande menzogna (quella per cui Biden avrebbe vinto le elezioni, cosa che secondo loro non sarebbe mai successa) – i suoi elettori sono diventati sempre più decisi. Non si preoccupano più di nascondere le tendenze violente, inneggiano alla guerra civile e si danno manforte a vicenda ripetendo come mantra le fake news sparse senza ritegno dai media trumpiani.

È una fazione unita e disposta a tutto, anche a dare la vita, pur di impedire la vittoria di forze politiche che giudicano ostili a sé e all’America in generale. Secondo Robert A. Pape, studioso che guida l’University of Chicago Project on Security and Threats, o CPOST, l’attacco al Campidoglio non è stato un punto di arrivo, ma l’inizio di qualcosa di molto inquietante. Lo suggeriscono gli argomenti retorici scelti da Trump, che fanno leva sulla paura dei bianchi di perdere rilevanza sociale e politica di fronte alla popolazione nera e latina, chiamano a una lotta in difesa della patria e puntano il dito contro un’élite complice che asseconda questo disegno politico. E lo conferma la demografia degli assalitori: a differenza di molte azioni di protesta e insurrezione, sono quasi tutti più che trentenni. In più provengono da un ceto medio-alto (alcuni erano manager affermati, e c’è chi ha raggiunto Washington con aereo privato) e abitano in zone dell’America dove è più visibile il calo della popolazione bianca.

Il risultato è che un pezzo d’America, spaventato dalle tendenze demografiche di lungo periodo, ha abbracciato la figura di un capo carismatico pronto a rovesciare la democrazia per riprendersi la Casa Bianca. Loro stessi si dicono disposti a ricorrere alla violenza per rimettere Trump al potere. Un fenomeno particolare, perché di solito nei sondaggi si tende a evitare, per autocensura, le risposte più estreme. Qui è avvenuto il contrario: la prospettiva di una guerra civile viene vissuta, più che come una possibilità, quasi come una certezza. Quello che ha creato Trump è un movimento di massa violento, compatto e pericoloso.

La sua seconda mossa, collegata alla prima, è quella di aver mantenuto il controllo del partito. Non è stato immediato. La sconfitta, le richieste assurde di riconteggio e – peggio ancora – di invalidazione dei voti – avevano suscitato numerose resistenze. L’attacco al Campidoglio, poi, aveva provocato reazioni, distinguo e proteste in seno al partito. In modo calcolato, sistematico e spietato Trump e i suoi accoliti hanno proceduto a eliminare tutti i suoi oppositori interni. La sua forza elettorale, che è addirittura cresciuta dopo la sconfitta, gioca in suo favore e zittisce eventuali rimostranze. Se è vero che, come ricorda lo stesso Gellman, quasi tutti i rappresentanti repubblicani ammettono a porte chiuse che Biden ha vinto le elezioni del 2020, in pubblico nessuno intende contraddire la folla, cercando anzi di trarne vantaggio.

Donald Trump può allora mettere in atto il terzo punto del suo piano, anzi: lo sta già facendo. In un certo senso, è la riedizione delle azioni convulse e disordinate messe in piedi dal suo team nei mesi successivi alla sconfitta. Per cogliere il nocciolo dell’operazione che si prepara per il 2024 bisogna capire bene cosa è successo in quel periodo. L’obiettivo vero, ricorda l’Atlantic, non erano le richieste di riconteggio, tutte campate per aria (anzi, alcune alla fine avevano trovato dei voti in più per Biden), bensì l’annullamento e il rovesciamento delle elezioni. Trump e i suoi consiglieri chiedevano ai rappresentanti Repubblicani degli Stati in cui aveva vinto Biden a prendere il controllo dei risultati e a scegliere i grandi elettori di Trump. Non era facile.

Secondo la Costituzione, tocca ai parlamenti dei singoli Stati federali decidere le regole con cui si scelgono i grandi elettori. Dal XIX secolo a oggi questo compito viene affidato ai cittadini: vengono certificati cioè quelli del candidato che ha preso più voti. Tuttavia la Suprema Corte ha ricordato, nello scontro tra Bush e Gore, che uno Stato «può sempre riprendersi questo potere». E anche se nessun tribunale o corte avesse mai dichiarato che lo possa fare anche dopo che i cittadini hanno votato, Trump e il suo team volevano arrivare proprio qui. Ribaltare la volontà popolare sulla base di qualche pretesto, o cavillo, e impadronirsi degli Stati in bilico finiti a Biden.

Perché il piano funzionasse almeno tre Stati dovevano rifiutare il risultato del voto e sostituire i grandi elettori. Una mossa clamorosa, ma non sufficiente per vincere: il Congresso avrebbe dovuto accettare il voto di questi elettori e la Corte Suprema evitare di intervenire. Trump e i suoi, in ogni caso, dovevano partire dai grandi elettori, cioè dai singoli Stati.

Il disegno si risolve fin da subito in una serie di sconfitte. Tutti i ricorsi legali per il riconteggio si sgonfiano e la presa di posizione di alcuni Repubblicani contro le pressioni di Trump – alcuni decisivi, come Aaron Van Lagenvelde in Michigan – fanno il resto. La partita finisce al Congresso e tutte le speranze vengono riposte, ormai in modo surreale, su Mike Pence. Al vice-presidente, cui tocca il ruolo formale di contare i voti dei grandi elettori viene chiesto di rifiutarsi di procedere nel conteggio o di escludere i risultati degli Stati su cui Trump aveva più speranze. L’importante è che la procedura venisse fermata, almeno per un po’.

Il 5 gennaio si chiede, con una mozione di emergenza alla Corte Suprema, di stabilire – in barba alla legge – che spetti al vicepresidente e non al Congresso la ratifica dei voti. L’obiettivo minimo è di prendere tempo. Intanto, nello stesso momento, si lancia un appello ai sostenitori di Trump, perché si trovino per protestare davanti al Campidoglio, nel tentativo nemmeno sottaciuto di intervenire con la forza. È la mossa più clamorosa e disperata, e anche per questo destinata a fallire. Le elezioni del 2020 sono sfuggite dalle mani di Donald Trump. Ora guarda a quelle del 2024.

Il metodo architettato è lo stesso. L’ex presidente ha cambiato collaboratori – ha sostituito i legali incapaci dell’anno scorso con studi ben più prestigiosi e importanti – ma ha mantenuto la stessa strategia. Stavolta, però, può contare sul fattore tempo e soprattutto su un partito sempre più fedele: quelli che si sono opposti a lui in quelle settimane sono stati allontanati. Gli altri hanno aderito alla retorica MAGA, ormai trasformata in una sorta di culto con i suoi martiri (Ashli Babbit, la donna uccisa durante l’assalto al Campidoglio) e i suoi slogan.

Gli effetti si vedono già. In Arizona, il parlamento ha fatto passare una legge che impedisce al segretario di Stato democratico di prendere parte sui ricorsi elettorali (cosa che aveva fatto nel 2020). Non solo: l’assemblea sta discutendo su un provvedimento per rivedere le proprie prerogative e, nel caso, allargarle. L’idea è di «poter revocare la certificazione di un grande elettore data del segretario di Stato per voto di maggioranza, in qualsiasi momento prima dell’insediamento del presidente». In altri 15 Stati sono state proposte nuove leggi per spostare l’autorità sulle elezioni dai governatori all’assemblea. In altri ancora sono state riscritte le regole elettorali per impedire ai cittadini democratici di votare. E una campagna di minacce e insulti da parte dei fan di Trump sta portando alle dimissioni una serie di funzionari nonpartisan responsabili delle operazioni elettorali. In Georgia una nuova legge garantisce a un board di intervenire su tutti i consigli elettorali dello Stato, anche provvedendo alla sostituzione dei loro membri.

In questo fermento di leggi e provvedimenti, Trump stesso (insieme ai suoi legali) sta preparando un provvedimento da sottoporre alla Corte Suprema, secondo cui non possono essere considerate valide le elezioni che non si sono svolte secondo le regole decise dai Parlamenti di ogni Stato. Sembra una affermazione anodina, ma in realtà, visto che il voto è un affare complicato e pieno di difficoltà procedurali e organizzative su cui decidono giudici locali (per esempio sul caso della caduta di corrente che obbliga a tenere aperti più a lungo i seggi) significa dare il potere a ogni Parlamento di rigettare o meno un risultato elettorale.

La macchina è avviata. Eppure, sebbene il presidente Joe Biden abbia ben chiaro cosa stia avvenendo, non ci sono reazioni abbastanza preoccupate da parte del partito democratico, tanto che i provvedimenti finora varati sono deboli o inconsistenti. E l’appello di Biden ai suoi colleghi Repubblicani, vista la potenza di fuoco dell’elettorato trumpiano, fa quasi sorridere.

La verità è che la democrazia americana, dopo le prove del 2020, è a rischio. Donald Trump, spesso bollato come un pagliaccio, rappresenta la minaccia più seria degli ultimi anni. E il vantaggio che viene dato nei sondaggi per le elezioni di mid-term al suo partito darà ancora più forza al suo piano. Nel 2024, con il sostegno di cui gode e con la forza della sua propaganda, Donald Trump potrebbe vincere le elezioni anche in modo legale. Ma non vuole correre nessun rischio.

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