La presidenza di Joe Biden è a rischio, e con essa anche l’esperimento democratico americano. L’ho già scritto un paio di volte negli ultimi tempi, anche se confido ancora nei pesi e nei contrappesi previsti dalla Costituzione degli Stati Uniti, ma ormai il dibattito è aperto, pubblico, popolare.
Attenzione, il problema stavolta non è Donald Trump. O, meglio, non è ancora Trump. Lo sarà se, come possibile, la presidenza Biden dovesse clamorosamente fallire. Le elezioni di metà mandato del 2022 sembrano ormai segnate e se si votasse oggi, secondo i sondaggi, Trump vincerebbe e questa volta difficilmente farebbe prigionieri.
Ma oggi la presidenza Biden è sotto il tiro incrociato del fuoco amico, non di Trump. Da una parte c’è l’ala socialista del Partito democratico, una fazione militante ben finanziata da una fitta rete di fondazioni e di donatori milionari che fino a qualche anno fa nemmeno esisteva. Sul fronte opposto, a indebolire Biden c’è una parte del mondo centrista che ha ben presente il danno elettorale che stanno facendo alla causa i radicali, ma che a sua volta propone soluzioni controproducenti, a cominciare dal de-potenziamento del piano di investimenti sociali presentato con solennità dal presidente.
L’ultima copertina del New York magazine, rivista elitaria di Manhattan e per questo strutturalmente attenta ai temi culturali progressiste, è un capo d’accusa senza attenuanti, anche perché è una pubblicazione che non può essere tacciata di pregiudizio contro la sinistra: «Joe Biden contro i Democratici», si legge nel titolo. E poi, nel sommario, «Perché un presidente un tempo popolare e con un programma ancora più popolare è così nei guai?». Risposta: «Prendetevela con il suo partito».
Il pericolo, insomma, è la battaglia ideologica dentro il Partito democratico, avviata dall’ala socialista per spodestare quella più tradizionalmente liberal, sulla scia di quanto avvenuto in anni recenti in Gran Bretagna contro i blairiani, in Francia contro i liberalsocialisti e in Italia contro i riformisti.
La tesi del New York magazine, arricchita da dati e da testimonianze autorevoli, è questa: Biden ha vinto le primarie e le elezioni presidenziali da democratico moderato e grazie al sostegno decisivo degli elettori afroamericani. Particolare da non trascurare: l’ala socialista del partito ha ridicolizzato Biden prima de voto, oltre che avversato, e durante le primarie gli ha anche consigliato di ritirarsi per evitare l’umiliazione e l’imbarazzo di una sconfitta certa (e di una vittoria di Bernie Sanders o Elizabeth Warren).
Ma è stato l’errore post elettorale, quello più grave. L’ala socialista del Partito, molto influente nelle università e nei media, ha maldestramente interpretato il successo elettorale di Biden come un evento epocale di riallineamento dell’asse politico a favore di un maggiore impegno militante a favore delle politiche identitarie delle minoranze etniche e di genere.
In realtà, scrive il New York magazine, i dati suggeriscono altro: nel 2020, le minoranze etniche hanno votato per Trump in percentuale maggiore rispetto a quattro anni prima, perché la divisione fondamentale nella società americana non è etnica, ma culturale.
Gli afroamericani, i latinoamericani e gli asiatici non sono necessariamente favorevoli a togliere i fondi alla polizia, ad aprire le frontiere o a pagare la copertura sanitaria agli stranieri come credono i militanti di sinistra. Anzi, sono il blocco più moderato dell’elettorato democratico, con problemi e istanze molto simili a quelli dei bianchi senza istruzione superiore che negli ultimi anni hanno abbandonato il partito proprio perché disinteressati alle battaglie culturali e identitarie della sinistra militante, molto sentite nelle università e sui media ma evidentemente non nei villaggi di provincia.
Da qui il grande equivoco, ben sfruttato dai media di destra e da Trump, di cui è vittima il Partito democratico di questa stagione che, anziché capire che cosa sta succedendo, continua ad accelerare sul fronte identitario, e nel farlo continua a perdere consensi.
Nel tentativo di corteggiare gli elettori non bianchi, i democratici sono riusciti ad allontanarli e nel cercare una maggiore mobilitazione delle minoranze marginalizzate lo hanno fatto in un modo non rispondente alle loro esigenze, ottenendo l’effetto opposto.
I centristi, scrive il New York magazine, hanno tutte le ragioni di questo mondo a prendersela con i socialisti, ma a loro volta hanno sbagliato risposta e hanno peggiorato la situazione per Biden e per l’America.
Sul piano rooseveltiano di Biden per ricostruire meglio il paese grazie agli ingenti investimenti infrastrutturali e nel welfare, i democratici stanno buttando al mare l’occasione unica di migliorare le condizioni di vita degli americani, di allargare la sfera dei diritti civili e di riottenere la fiducia della working class.
Il progetto di Biden è partito con il favore popolare, ma col passare del tempo il gradimento si è ridotto sensibilmente, stavolta a causa dell’intervento dei senatori centristi democratici, i quali hanno considerato il calo dei consensi, la catastrofica sconfitta in Virginia e le grigie previsioni elettorali del prossimo anno come un rigetto generalizzato del piano Biden e delle singole misure di maggiore copertura sociale.
Questo ulteriore errore di valutazione li ha convinti a cancellare dal piano Biden la copertura pubblica di spese mediche, sociali e universitarie, indebolendolo e rendendolo meno efficace e meno popolare.
Un doppio autogol, insomma, costruito interamente in casa democratica, nonostante il forte consenso popolare iniziale sul progetto-manifesto di un presidente che ha sconfitto il predecessore con uno scarto di oltre sette milioni di voti.
La disaffezione degli elettori democratici, insomma, non va ricercata nelle misure di maggiore protezione economica e sociale proposte da Biden, piuttosto nelle battaglie culturali e identitarie ideate dalla classe agiata progressista e drogate dai like nel collegio di Twitter, ma che nel mondo reale non hanno una forte presa, anzi disperdono il consenso.
Sarebbe il caso che i democratici americani se ne accorgessero in tempo, prima che sia troppo tardi. E questa è una lezione americana anche per il nostro mondo democratico che gioca a farsi la guerriglia e che scambia la politica con le attività social degli influencer. Salvo poi accorgersi che i gli elettori se ne vanno altrove.