Il ritrovo dei giustiIl ritorno dell’America e il summit per salvare le democrazie

Sono 110 i Paesi invitati da Joe Biden all’incontro virtuale del 9 e 10 dicembre. Tra questi figura anche Taiwan, e non la Cina. Un tema fondamentale, trattato, fin dal titolo, anche nel nuovo numero di Linkiesta Magazine

AP Photo/Susan Walsh, File

Sempre più Paesi al mondo tendono a soluzioni autoritarie. È il problema al centro del nuovo numero di Linkiesta Magazine in collaborazione con New York Times Review. Si intitola “Come salvare la democrazia (e tutti noi)” e si può ordinare qui, o comprare nelle migliori librerie di Milano e Roma dal 27 novembre.

The Summit for Democracy”: si chiama così l’evento virtuale del 9 e 10 dicembre che il Dipartimento di Stato ha annunciato martedì notte, e a cui sono state invitate 110 nazioni.

Il presidente Joe Biden lo aveva promesso in campagna elettorale, ma ora la iniziativa acquista ancora maggior significato. Nel frattempo, infatti, non solo c’è stata una gran quantità di eventi che hanno sancito un chiaro arretramento della democrazia nel mondo.

Come ricorda lo stesso Dipartimento di Stato, «la democrazia e i diritti umani sono minacciati in tutto il mondo. Le democrazie, sia in fase di transizione che consolidate da decenni, stanno affrontando serie sfide all’interno e all’esterno dei loro confini. La sfiducia pubblica e il fallimento dei governi nel fornire un progresso economico e politico equo e sostenibile ha alimentato la polarizzazione politica e l’ascesa di leader che stanno minando le norme e le istituzioni democratiche.

In tutto il mondo, la debole capacità statale, lo Stato di diritto debole, l’elevata disuguaglianza e la corruzione continuano a erodere la democrazia. Allo stesso tempo, i leader autoritari stanno raggiungendo le frontiere per minare le democrazie, dal prendere di mira giornalisti e difensori dei diritti umani all’ingerenza nelle elezioni, il tutto seminando disinformazione per affermare che il loro modello è più efficace per le persone. Gli attori ostili esacerbano queste tendenze manipolando sempre più le informazioni digitali e diffondendo disinformazione per indebolire la coesione democratica».

Tra questi eventi allarmanti ci sono stati l’assalto dei seguaci di Trump a Capitol Hill e il crollo di schianto di quella ipotesi di democrazia afghana su cui gli Stati Uniti e il resto dell’Occidente avevano puntato e per cui avevano investito risorse e uomini.

Il primo ha indicato chiaramente come gli stessi Stati Uniti non sono al sicuro. Divenuto a questo punto il pilastro per la difesa della democrazia in patria, con il ritiro da Kabul Biden ha però preferito indicare una cosa: che gli Stati Uniti non sono più disponibili ad anteporre ai propri pressanti problemi interni l’ulteriore fardello del promuovere e difendere la democrazia nel mondo.

Peraltro, non è stata questa la vocazione originaria americana. Per i primi 120 anni della loro storia, in effetti, gli Stati Uniti hanno sì dato un esempio, manifestato simpatie e anche dato asilo a perseguitati di tutto il pianeta, guadagnandosi una reputazione di cui sono state massime icone la Dichiarazione di Indipendenza di Thomas Jefferson e il Discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln.

Però la politica estera era stata guidata da un principio di radicale isolazionismo, salvo una parentesi espansionista dettata dal bisogno degli Stati sudisti di estendere il loro modello schiavista per rafforzare la propria posizione nella federazione, che culminò nella Guerra col Messico, ma che poi si chiuse con la Guerra Civile. Solo con la Guerra alla Spagna del 1898 l’America torna a una forma di espansionismo, evidentemente contagiato dalle mode imperialiste dell’epoca, ma anch’esso ammantato dallo slogan di «riportare la libertà a Cuba».

L’idea che compito degli Stati Uniti sia quello di «rendere il mondo sicuro alla democrazia» in realtà nasce con l’intervento di Woodrow Wilson nella Grande Guerra, e con i Quattordici Punti da lui enunciati l’8 gennaio 1918. Ne è corollario quel primo disegno di alleanza delle democrazie che è rappresentato dalla Società delle Nazioni, a cui però col ritorno di fiamma dell’isolazionismo repubblicano paradossalmente gli Stati Uniti non partecipano, dopo averla ispirata.

Visto che il risultato è stata la Seconda Guerra Mondiale, Franklin Delano Roosevelt il 6 gennaio 1941 torna a dettare un manifesto con il suo “Discorso sullo Stato dell’Unione” dedicato alle Quattro Libertà. Ed è qui espressa l’ideologia che porta alla Carta Atlantica sottoscritta con Churchill il 14 agosto 1941, all’intervento in guerra dopo Pearl Harbor e alla creazione dell’Onu. Che però con la ammissione dell’Unione Sovietica cessa di essere alleanza delle democrazie praticamente da subito, anche se la scelta di Mosca di boicottare il Consiglio di Sicurezza per protesta contro il seggio alla Cina Nazionalista nel 1950 permette l’eccezionale formazione di un esercito delle Nazioni Unite contro l’aggressione nord-coreana.

Dal 1949 una alleanza delle democrazia attorno all’America è stata intanto formalizzata nella Nato, che Washington cerca di completare in Asia con una rete di altre alleanze però destinata a naufragare di fronte ai problemi della decolonizzazione. L’Alleanza per il Progresso di John Fitzgerald Kennedy, presidente dell’«Io sono un berlinese», cerca di risolvere il problema dando alla difesa della democrazia anche un contenuto sociale.

Dopo il disastro del Vietnam con Nixon e Kissinger gli Usa sembrano rinunciare alla democrazia in favore di una linea di contenimento dell’Urss basata su una Realpolitik dura, anche di golpe e regime autoritari. Non solo di destra, peraltro: Kissinger è al contempo l’uomo dell’alleanza antisovietica con la Cina di Mao. Con Carter si torna ai valori, con la politica dei diritti umani. Ma i valori senza forza portano ad altri disastri, in particolare in Iran. Tra la tesi di Kissinger e l’antitesi di Carter è Reagan la sintesi che cerca di basare la lotta all’«Impero del Male» su una combinazione tra ideali e forza, appoggiando sistematicamente la sovversione del blocco comunista fino a quando non crolla.

Una sorta di alleanza delle democrazie attorno all’Onu sul modello della Guerra di Corea può così tornare dopo la caduta del Muro di Berlino, nella forma della coalizione creata da George Bush per cacciare Saddam dal Kuwait. Ci sono però dentro anche realtà autoritarie come la Siria di Assad e le monarchie del Golfo, e comunque l’obiettivo di restaurare l’indipendenza del Kuwait non si estende al rovesciamento della dittatura a Bagdad.

«È l’economia stupido!» spiega Bill Clinton, in chiave di nei-isolazionismo soft. Presto capisce che non si può, e la Nato nel frattempo in fase di espansione interviene nei Balcani. Infine in Afghanistan e Iraq George W. Bush tenta l’alleanza per esportare la democrazia. Entra in crisi con la crisi, scusate il bisticcio. Se Barack Obama tenta ancora in qualche modo di salvare capra a cavoli, la liquidazione arriva con accenti diversi attraverso Donald Trump e Joe Biden: il primo che tratta coi Talebani quella che poi rivelerà la fuga da Kabul; il secondo che la attua.

Ma, appunto, è probabile che Biden non voglia passare alla storia solo come il presidente che ha perso Kabul. E d’altra parte i segnali che il mondo sta diventando «insicuro» per la democrazia si moltiplicano. Dal Democracy Index dell’Economist al rapporto di Freedom House, tutti gli studi che cercando fare un punto sul tema all’inizio dell’anno attestavano un arretramento. E nei mesi successivi la situazione ha continuato a peggiorare.

A parte il ritorno dei Talebani al potere in Afghanistan, facendo una panoramica a volo di uccello abbiamo assistito ad esempio alle elezioni truccate in Venezuela e Nicaragua, alla repressione di Cuba, alla radicalizzazione elettorale in Perù e Cile, alla crisi del Brasile, alla violenza di Haiti, all’arretramento democratico in El Salvador e Tunisia, alla crisi del Libano, allo scontro della Ue con Polonia e Ungheria, all’attacco “ibrido” di Lukashenko e Putin alla Polonia con la contemporanea minaccia all’Ucraina, all’irrigidimento di Russia, Cina, Turchia, dei golpisti di Myanmar, all’improvviso collasso in Etiopia di un presidente Nobel per la Pace, al golpe che ha arrestato la transizione in Sudan, anche se lì proprio grazie alle pressioni americane il primo ministro deposto torna ora al potere. Quest’ultimo, segnale che qualcosa si può fare e si deve fare.

Ma per fare, evidentemente, bisogna anche avere coraggio. Biden in questo caso non lo ha mostrato tanto col non invitare la Cina, bensì invitando Taiwan: il governo di Pechino ha ovviamente protestato, ma in un vertice «di democrazie» la scelta era inevitabile, anche se riscalda di nuovo il clima dopo l’apparente disgelo seguito al summit tra Biden e Xi Jinping. Anch’esso, virtuale.

Scontata anche l’esclusione di Vladimir Putin, il cui portavoce Dmitry Peskov si lamenta in modo scontato: «gli Stati Uniti preferiscono creare nuove linee di demarcazione, dividere i Paesi tra i buoni – secondo loro – e i cattivi – secondo loro».

La scelta difficile è stata quella di non invitare una quantità di Paesi alleati, ma francamente autoritari o in fase di involuzione. Al primo gruppo di esclusi appartengono ad esempio le monarchie del Golfo: comprese quei Bahrein e Emirati Arabi Uniti protagonisti degli Accordi di Abramo e di recenti manovre navali congiunte con America e Israele, l’Arabia Saudita, o quel Kuwait per cui fece la guerra del 1991 (ma ci sono invece l’Iraq post-Saddam, e il Pakistan sponsor dei Talebani!).

Al secondo gruppo appartengono membri della Nato come l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdoğan. È stata però invitata la Polonia, come il Brasile di Bolsonaro e l’India di Modi. Ma ci sono anche altri governi latino-americani di sinistra, come quello messicano di Andrés Manuel López Obrador, quello argentino di Alberto Fernández e quello peruviano di Pedro Castillo.

Con Venezuela, Nicaragua e Cuba è invece esclusa la Bolivia, ma anche l’El Salvador di Nayib Bukele: presidente millennial fautore del bitcoin con energia vulcanica, che si definisce « il dittatore più cool del mondo». Tra i paesi invitati in Africa figurano la Repubblica Democratica del Congo, il Kenya, il Sudafrica, la Nigeria e il Niger.

«Nessuna democrazia è perfetta e nessuna democrazia è mai definitiva. Ogni conquista fatta, ogni barriera infranta, è il risultato di un lavoro determinato e incessante», aveva detto Biden il 15 settembre in occasione della Giornata Internazionale della Democrazia.

Oltre ai leader di governo sono invitati anche quelli della società civile e del settore privato. Obiettivo, secondo il Dipartimento di Stato: definire un’agenda affermativa per il rinnovamento democratico e affrontare le maggiori minacce affrontate dalle democrazie di oggi attraverso l’azione collettiva. Sempre il Dipartimento di Stato spiega che «per gli Stati Uniti, il vertice offrirà l’opportunità di ascoltare, apprendere e impegnarsi con una vasta gamma di attori il cui sostegno e impegno sono fondamentali per il rinnovamento democratico globale. Mostrerà anche uno dei punti di forza unici della democrazia: la capacità di riconoscere le sue imperfezioni e affrontarle in modo aperto e trasparente, in modo che possiamo, come dice la Costituzione degli Stati Uniti, “formare un’unione più perfetta”».

«I leader saranno incoraggiati ad annunciare azioni e impegni specifici per riforme interne significative e iniziative internazionali che promuovono gli obiettivi del Vertice». Questi impegni includeranno iniziative nazionali e internazionali che contrastino l’autoritarismo, combattano la corruzione e promuovano il rispetto dei diritti umani».

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