«Te stai a fa’ ’na pelle»L’implausibile professor Gassmann, la dittatura dei bellocci e la fantascienza su Rai1

Il teleromanzo che porta la filosofia in prima serata è così brutto da ipnotizzare 5 milioni di spettatori

Pixabay

Il mio unico imperativo morale è: chi ha successo ha ragione. Con questo spirito mi sono messa a guardare “Un professore”, sceneggiato di Rai 1 che quasi cinque milioni di italiani hanno guardato negli ultimi sei giovedì sera (giacché questo non è un paese per serie, e i successi di stagione si esauriscono in poco più d’un mese, a botte di due puntate alla volta, sia mai che la fascia oraria di prima serata debba finire a un’ora civile).

Guardando la prima puntata, una cosa che oltre a essere d’ipnotica bruttezza era così priva di specificità da pensare che qualcuno dei prestigiosi nomi coinvolti avesse detto «Mettiamo Alessandro Gassmann a fare il professore di filosofia in un liceo e poi da lì improvvisiamo», mi hanno colpito i titoli di testa e di coda, che la svelavano come adattamento d’una serie spagnola. Quindi «mettiamo Alessandro Gassmann a fare il professore di filosofia» è un’idea che abbiamo dovuto comprare all’estero? Ma tu pensa.

I titoli la segnavano come adattata da “Merlin”. Una rapida ricerca su Google svela che la serie spagnola s’intitola in realtà “Merlí”. Sono cinque settimane che il principale prodotto di Rai 1 ha un refuso sui titoli di testa e su quelli di coda. Cosa potrà mai andar storto.

La rapida ricerca su Google svela che viene dalla Spagna anche l’assurdo programma di studi che Gassman propone alla classe, parlando un giorno di Platone e il giorno dopo di Kant: sono una terza? Sono una quinta? Sono un liceo sperimentale in cui si saltano una ventina di secoli tra una lezione e l’altra? Mistero misteriosissimo che appassiona solo me e il prof di latino, cliché di barbogio che osa chiedere allo scapigliato Gassmann perché spieghi Foucault invece dei presocratici. Lo sventurato non gli risponde che è perché si trovano ad abitare un format in cui i filosofi sono il tema e il titolo d’ogni puntata, e coi presocratici mica ci fai una stagione.

Ho temuto brevemente la seconda stagione: nella versione spagnola, una puntata s’intitola Judith Butler; ma poi Foucault è stato ridotto a due righe di bignami di “Sorvegliare e punire” e va benissimo così: la generazione prima ha imparato la legge morale da Silvio Orlando, questa la imparerà da Alessandro Gassmann.

(Comunque è una terza, lo si capisce perché a un certo punto studiano Paolo e Francesca, e un’impagabile studentessa ha modo di ricordarci che è un liceo romano: «“Quali colombe dal disìo chiamate”: che vor di’ “disìo”?»).

Chissà se viene dalla Spagna anche l’assurdità guardarobiera, in cui in una Roma che si suppone di fine settembre (il nuovo professore comincia l’anno scolastico nella nuova scuola) si aggirano tutti con maglioni e giacconi.

E chissà da che latitudine viene l’inverosimiglianza delle dinamiche di genere. Al liceo, cioè a un’età alla quale una ragazza per accoppiarsi basta esali un alito di disponibilità (e in genere lo esala verso ragazzi più grandi e non verso brufolosi coetanei), e i maschi vanno per la maggior parte in bianco (per poi passare il resto della vita a rifarsi di quelle che non gliel’hanno data al liceo, cioè quasi tutte), “Un professore” ci racconta diciassettenni isteriche come quarantenni all’ultimo giro di fertilità che si disperano di gelosia e tradimenti e corna, e loro coetanei che scopano in giro. È una serie di fantascienza, un genere che non sapevo fosse così popolare in prima serata.

Non male anche il dettaglio fantascientifico di Claudia Pandolfi, nell’insopportabile ruolo di una che non sa badare a sé stessa (invero un lampo di verosimiglianza: una che si sente un genio incompreso, come quasi tutte le cinquantenni in circolazione, una con più ambizioni che talenti).

Fantascientifico non perché non esistano donne così, ma perché: l’avete vista? Voglio dire: è Claudia Pandolfi. Non è che dite al reparto trucco di metterle le occhiaie e smette di sembrare una delle donne più belle in circolazione.

Un giorno bisognerà mettersi ad analizzare seriamente la dittatura dei bellocci sul cinema e sulla televisione, il fatto che non si vedano più facce non da copertina, la pretesa che il pubblico creda che chi ha un aspetto da modella non trovi il modo di mantenersi. Le avessero fatto vendere barrette dietetiche su Instagram, alla Pandolfi, ci avrei creduto più facilmente che vedendola aspirante romanziera che non si rassegna a fare la cameriera.

Chi ha successo ha ragione, e quindi hanno fatto benissimo ad accroccare questo teleromanzo in cui gli adolescenti incappano in criminali che chiedono loro di tenere nascosta una macchina che non dev’essere trovata e fa schifo ma è preziosissima perché per una rapina proprio non se ne può usare un’altra: affidiamola a un diciassettenne, dai; in cui i sedicenni tornano a casa in motorino strafatti e ubriachi ma con il casco perfettamente allacciato, perché su Rai 1 mica possiamo dare il cattivo esempio; in cui gli adolescenti sono complessi e tormentati e fragili, acciocché lo spettatore medio possa dire sì, è proprio così, anche mio figlio, non è una gigantesca rottura di coglioni, è il futuro e io devo sforzarmi di andargli incontro.

C’è una scena in cui la Pandolfi dice che il figlio diciassettenne «è la vita mia», e Gassman è tutto contrito perché al suo adolescente mica gliel’ha mai detto che è la vita sua, ed è evidentemente lui l’anaffettivo, mica lei la pazza fanatica incapace di costruirsi una vita propria e attaccata in modo morboso a un ragazzino; è lei la norma, in questo tempo sbandato, è lei lo specchio in cui il pubblico di Rai 1 vuole riflettersi.

Chi ha successo ha ragione, persino se a un padre basta vedere che il figlio ha la foto d’un amico nel computer per capirne l’inconfessata omosessualità; e persino se i criminali che trovano un ragazzino intento in commerci carnali dicono «Te stai a fa’ ’na pelle», e io resto lì a chiedermi quanti dei quattro milioni e spicci siano fuori dal grande raccordo anulare, e in quel caso cosa capiscano delle minuscole variazioni sull’italiano effettuate dai romani.

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