Questo siamo noiNell’epoca dell’immedesimazione c’è solo un identitarismo che manca: quello dei brutti

Lo scandalo del giorno è il rifacimento italiano della serie tv americana This is Us senza i protagonisti neri e portoricani dell’originale. Cancellazione dell’identità e impossibilità di immedesimarsi, almeno secondo le macrocategorie del club dei giusti. Come se Belén o Julia Roberts rispecchiassero tutte le donne bianche, etero e abili

di Evgeni Tcherkasski, da Unsplash

Non capisco come mai nessuno del club dei giusti ponga il problema di “Parenti serpenti”. “Parenti serpenti” è una commedia di Mario Monicelli uscita ventinove anni fa.

Racconta un Natale in una famiglia di provincia, e funziona per molte ragioni; tra le principali: il cast è fatto di attori e attrici inderogabilmente bruttissimi. Oggi, “Parenti serpenti” funzionerebbe meno perché la cognata cessa la farebbero fare a Kasia Smutniak. Com’è possibile che gli identitaristi non invochino il diritto dei bruttini – una maggioranza, ma non per questo meno discriminata – a essere rappresentati?

Questa della dittatura dei bellocci nella cinematografia degli ultimi anni è una mia ricorrente fissazione, e ci ho ripensato ieri, mentre una scrittrice italoruandese rovesciava sull’Instagram la propria indignazione per il rifacimento italiano di “This Is Us”.

Riassumo, in caso siate così fortunati da non avere mai visto la serie più identitaria che ci sia. “This Is Us” è la storia di tre fratelli, due gemelli bianchi, e il terzo un nero adottato dai genitori lo stesso giorno in cui sono nati i gemelli. Alterna il presente, in cui i tre sono borghesi quarantenni con problemi minuscoli e la madre vedova si è risposata col migliore amico portoricano di papà, e il passato, in cui erano una famiglia degli anni Ottanta con problemi minuscoli. Tutto è minuscolo, in “This Is Us”, che è quindi il prodotto perfetto per un’epoca in cui il pubblico vuole sentirsi dire dallo schermo che le sue microsfighe sono rilevanti.

In sintesi, tra i tre di “This Is Us”: il bianco soffre perché è bello ma scemo; la bianca soffre perché è grassa; il nero soffre perché ha i fratelli bianchi.

Nell’imminente rifacimento italiano, ha scoperto ieri Espérance Ripanti, la moglie del figlio nero non sarà nera come nell’originale, e il marito della madre non sarà portoricano. Cancellazione delle due comunità dalla rappresentazione televisiva, e negazione della possibilità della Ripanti di immedesimarsi.

Si aprono, da questa protesta, tante di quelle questioni che scarto subito le più ovvie, cioè che l’immedesimazione è un feticcio che bisognerebbe superare intorno ai dodici anni (anche se, come le dodicenni senili, la chiamate «empatia»), e che un quarantenne borghese nero italiano con moglie borghese nera italiana richiederebbe una sospensione dell’incredulità forse eccessiva, in un paese in cui la borghesia nera è più rara dei diciottenni che se ne vanno di casa.

Il feticcio dell’immedesimazione discende da uno tra i più fessi degli slogan americani che il club dei giusti ha deciso d’importare acriticamente: representation matters. Significa che Hillary Clinton doveva vincere contro Trump non perché fosse più qualificata, ma perché è importante che le nostre figlie vedano che una donna può diventare presidente. Anzi: perché le nostre figlie non saranno mai consapevoli di poter essere ambiziose se non vedono una uguale a loro nei posti di potere.

Il che implica due cose (ve l’avevo detto, che c’erano molti sottinsiemi).

Una: che Marcell Jacobs non ha mai vinto le olimpiadi, non essendosi mai potuto ispirare a un italiano mulatto che avesse avuto successo in qualsivoglia campo. Senza modelli comportamentali nulla può accadere, quindi quella medaglia era un’illusione, come lo erano gli anni in cui Margaret Thatcher, nata quando in Inghilterra le donne avevano diritto di voto da sette miseri anni, fu primo ministro.

Due: le donne sono tutte uguali. I neri sono tutti uguali. I gay sono tutti uguali. Eccetera. Le macrocategorie del club dei giusti e delle politiche identitariste, di fatto, cancellano l’identità.

Marcell Jacobs e il ragazzo di Glovo che mi ha appena portato la pizza sono entrambi mezzi neri, ma hanno poco altro in comune. Julia Roberts e io siamo entrambe donne, ma non abbiamo – purtroppo per me – niente in comune.

Alla sua invettiva, la Ripanti ha fatto seguire un appello ai visitatori, che sui social funziona sempre. Ditemi quali sono i personaggi che ci somigliavano, e guardando i quali sullo schermo ci siamo quindi sentiti meno soli (lei scrive «personaggə», perché l’identitarismo ha molti problemi lessicali tra i quali non capire che «personaggio» è già neutro di suo).

Tra le risposte c’è una persona che le dice che si è finalmente sentita capita quando, in un romanzo, ha trovato un personaggio con l’endometriosi. Scusate se parlo di me (tanto per cambiare), ma la prima volta che mi hanno diagnosticato l’endometriosi avevo più di trent’anni, il che significa che da una ventina d’anni avevo cicli mestruali invalidanti. Avrei voluto vedere al cinema una (magari Julia Roberts) che non potesse fare un quarto d’ora di strada senza dover chiedere di usare un bagno altrui per tenere sotto controllo l’emorragia? Una (ma forse Nicole Kidman) che si contorcesse dai dolori mentre le altre pensavano «eh ma quante storie»? Una (e perché non Laura Morante) che pregasse per l’arrivo della menopausa come le altre pregavano per l’arrivo del principe azzurro? No: avrei voluto che si facessero più congressi medici in modo che il mio strazio venisse diagnosticato prima.

Tra le risposte alla Ripanti ci sono le inevitabili premessiti di quelle che dicono che, essendo bianche e abili e etero, si sentono comunque molto rappresentate al cinema. Beh, ragazze mie, lasciate che ve lo sveli: no. Scarlett Johansson è bianca e etero e abile. Isabella Ferrari è bianca e etero e abile. Belen, Miriam Leone, Helena Christensen: se scorro il mio Instagram, è pieno di bianche etero abili in cui non sono abbastanza mitomane da rispecchiarmi. (Tutte peraltro sufficientemente fighe per stare nel rifacimento di “Parenti serpenti” ora che la commedia all’italiana è diventata la sagra della carinitudine).

Anzi, quasi quasi ora scrivo una lettera di protesta alla cinematografia tutta. È ora di finirla con questo cinema monopolizzato da chiome fluenti: così si cancella l’importanza di rappresentare quelle come me, che non solo hanno quattro capelli ma sono pure sottili e ricci, e se non si fanno la piega dal parrucchiere sembrano delle sfollate e se se la fanno comunque regge dieci minuti.

Domenica sul Sunday Times c’era un articolo sul sesso extra-penetrazione. L’autrice dell’articolo è stata tempestata di tweet da una lettrice che una volta mi sarebbe parsa una pazza furiosa e oggi mi sembra perfettamente in media con la furia identitaria. La lettrice si sentiva esclusa e discriminata e cancellata dal fatto che l’articolo non parlasse di lei, che è in menopausa e la voglia di scopare le è passata e nessuno rappresenta la sua posizione sui giornali e lei come fa a sapere d’essere normale se ne cancelliamo l’esistenza?

Ma, signora mia, possibile che all’età dei datteri abbiamo ancora bisogno di conferme circa la vasta gamma delle normalità umane? Possibile che serva la convalida sociale del non aver voglia di scopare, dell’essere nere, dell’essere cesse? Ma soprattutto, tanto per saccheggiare una volta di troppo Fran Lebowitz, quand’è che abbiamo smesso di cercare nelle storie degli altri vie di fuga che ci distraessero da noi, e abbiamo cominciato a pretendere ch’esse fossero il nostro specchio?

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