Nonostante le successive precisazioni, continuano a far discutere le considerazioni di Mario Monti sul tipo di comunicazione con il quale, a suo avviso, dovrebbe essere affrontata – e non lo è – la questione della pandemia.
Senza scomodare i temi della libertà di opinione e della censura a me pare assolutamente evidente che la comunicazione, soprattutto quella televisiva (per carità di patria non parliamo di ciò che transita sul web) presenti dei limiti con effetti distorsivi sia per quanto riguarda la forma sia le modalità della comunicazione stessa, prima ancora che dei contenuti.
Ho maturato questa convinzione per esperienza diretta, quale frequentatore dei talk show (almeno di quelli che sembrano essere meno truci di altri). Il dibattito in quelle trasmissioni che riempiono le giornate (soprattutto le serate) dei telespettatori e che si avvalgono più o meno della stessa “compagnia di giro”, finiscono per affrontare una gravissima crisi sanitaria, sempre pronta ad esplodere sull’economia, come se si trattasse di una riedizione della “Corrida” la storica trasmissione di Corrado (per quelli che se la ricordano).
Lo show consiste nel mettere insieme un panel – quasi sempre troppo numeroso per il tempo a disposizione – di persone con opinioni diverse, il più possibile polemiche e pittoresche, abilitate a dire tutto ciò che passa loro per la mente, perché – qui sta il primo vizio – i talk show non hanno ancora ripudiato il principio del uno vale uno.
Certo, è sempre presente un virologo nel ruolo del deus ex machina. Mentre nella tragedia greca (di Euripide) questo personaggio serviva a dipanare una trama divenuta troppo complessa ed era ascoltato da spettatori consci della sua autorevolezza, da noi gli esperti si contraddicono tra di loro, ammesso e non concesso che abbiano la possibilità, in trasmissione, di completare un ragionamento quando viene il loro turno.
E qui sta un secondo vizio: la trasmissione deve avere un ritmo, per cui se non si riesce a spiegare in breve tempo e con poche parole un concetto oggettivamente complicato, il conduttore che passa oltre e volta pagina. Cioè cambia argomento.
In un contesto di questo tipo più che la conoscenza degli argomenti affrontati serve la battuta felice, la parola che interrompe e zittisce i propri interlocutori; la capacità di bucare lo schermo che manda al macero intere biblioteche scientifiche.
Queste considerazioni coinvolgono quasi tutta la comunicazione televisiva. Ma un conto è parlare di cucina o andare in escandescenza quando segna il Milan, un conto è riuscire ad orientare gli ascoltatori su questioni che riguardano la loro salute e quella pubblica.
Come prima cosa sarebbe necessaria una base di dati condivisi. Se si discute del Pil, bisogna accettare la percentuale certificata dall’Istat anche se la si giudica in maniera differente. Lo stesso dovrebbe valere per il numero delle pensioni e per le loro tipologie in rapporto alle statistiche dell’Inps.
Nel caso del Covid, invece, tutto è un’opinione, persino il numero dei morti. Se le autorità sanitarie forniscono il dato di 135mila decessi, non può essere considerata un’opinione sostenere che in verità si è trattato di 3.700 casi. Toccherebbe ai conduttori essere gestori, arbitri e testimoni di quanto è obbiettivo ed accertato e che non è un’opinione come un’altra.
Allo stesso modo, ci vorrà pure una sede riconosciuta che spieghi con oggettività che cosa è la pandemia, come si sviluppa, quali sono i suoi effetti, avendo a disposizione tutto il tempo necessario. In un confronto con simili caratteristiche possono avere spazio anche visioni e teorie diverse, purché presentate con riferimenti minimamente fondati, in grado di confutare tesi altrui e di essere adeguatamente confutati.
Esiste poi un ultimo vizio. Nei dibattiti televisivi, coloro che sostengono posizioni no vax o no pass – se non sono proprio degli scappati di casa, ma purtroppo di solito lo sono, che si inventano congiure internazionali, funesti incroci astrali o smania di profitti delle Big Pharma – possono valersi di una indubbia rendita di posizione: criticare i dubbi, i contrordini, gli errori stessi di coloro che conducono la lotta al virus.
Perché è normale che non sia lineare la condotta di quanti si muovono in un terreno sconosciuto che riserva sempre nuove sorprese, che destabilizza comportamenti e presidi precedenti, che impone misure di cambiamento rapido (in molti vorrebbero sapere se possono prenotare le vacanze invernali!).
È normale che i virus abbiano delle varianti e che uno nuovo e in parte ancora sconosciuto, sia in larga misura imprevedibile (nel caso di Omicron un allarmismo eccessivo ha determinato un crollo dei mercati finanziari). Ed è una prassi efficace per gli oppositori “giocare in casa” della maggioranza, perché qualunque governo in questa battaglia è in grado di garantire solo degli esiti più o meno parziali e relativi (a parte la disdicevole Torre di Babele dei diversi provvedimenti volta per vota adottati).
Ma è profondamente disonesto che quanti non credono nelle vaccinazioni, perché le considerano pericolose per la salute e strumento occulto della privazione della libertà, rimproverino quelli che credono nella scienza e nella ragione perché non sono in grado di garantire quell’assoluta sicurezza che loro negano in partenza.