Forse moriremo di virus, forse di antivirus, forse di mascherine al cinema e per strada, forse di nasi fuori dalle mascherine anche se siamo in sette in uno sgabuzzino; ma più probabilmente moriremo d’opposte isterie, il vero lascito degli ormai quasi due anni di pandemia. E tu di che isteria sei, quella degli incoscienti o quella di chi va in giro a cercare mancate prudenze per stigmatizzare gli untori?
Mentre voi leggerete questo articolo io non sarò a una riunione programmata da settimane, quindici persone in una stanza; e a fine riunione, mi raccomando, il pranzo per farsi gli auguri: dovessimo mai non perdere mezza giornata; dovessimo non dirci frasi ricche di significato specialmente per noialtri atei quali «fai un buon Natale»; dovessimo mai non frequentare i ristoranti in giorni in cui tutti frequentano i ristoranti, giacché pare che non andare a fare sette o otto tavolate prenatalizie porti peggio che non mettersi le mutande rosse a capodanno.
La settimana scorsa ho telefonato all’organizzatore del gruppo di lavoro, che è anche un vecchio amico, e gli ho detto che insomma, a me non pareva un’ottima idea, ’st’inutile scambio d’aria e salive, la variante che un giorno il vaccino ti protegge e un giorno no (l’unica grande certezza che ci lascia la pandemia: i medici improvvisano), l’inverno, i contagi, il fatto che – conciata come sono – io se mi prendo il virus muoio sicuro e avrei un altro paio di cose da scrivere e mi serve campare almeno un annetto.
Lui mi ha detto che stava lavorando a una soluzione alternativa, e io ho pensato: ah, vedi, che persona ragionevole; ah, vedi, che a parlare coi laureati in materie scientifiche ci si capisce, mica fanno cose a caso come gli umanisti; ah, vedi, meno male che ci aveva già pensato.
Qualche giorno dopo mi ha chiamato annunciando gongolante che la riunione era spostata a un altro indirizzo. Ma in che senso. Nel senso che è una sala per il triplo di quanti siamo, così stiamo distanziati. Ma c’è una cazzo di pandemia, non possiamo vederci su Zoom come le persone normali. No, perché dopo dobbiamo andare a pranzo. Vabbè, ma allora sei un laureato in Lettere (non credo abbia compreso la gravità dell’insulto).
La telefonata è andata avanti un altro po’, con lui che mi accusava di eccesso di prudenza, di non capire che la terza dose mi proteggeva, di non sapere che al ristorante c’è il distanziamento (il famoso distanziamento dei ristoranti sotto Natale). Con me che dicevo «io veramente la terza dose non l’ho ancora fatta», e lui che rispondeva come un vero cialtrone «vabbè, l’hanno fatta gli altri, è uguale», e io non volevo fare la parte della picchiatella antivaccinara e quindi non gli dicevo che sono contagiosi uguale, e dicevo solo che secondo me era imprudente, e lui mi trattava come una che ti dice che non viene alla tua festa di compleanno perché le è morta la nonna e quell’anno è la quattordicesima volta che le muore la nonna.
Stavo ancora rimuginando sull’accusa d’eccesso di prudenza, che mi colpisce particolarmente perché io ho paura di praticamente tutto: del motorino, delle scale, del crollo della libreria fissata male al muro, di camminare sulle grate che se si staccano precipiti nelle viscere della terra, di tuffarmi e sfracellarmi sugli scogli, di tuffarmi dalla barca e venire divorata da uno squalo (ma non in posti dove avrebbe senso temerlo, tipo le Bahamas: io ho paura degli squali a Pinarella di Cervia); ho paura di tutto, ma della pandemia non particolarmente. Per me la pandemia è sintetizzata in quel verso della mia canzone preferita di Robbie Williams: non ho paura di morire, è che non voglio.
Stavo ancora rimuginando, dicevo prima dell’ultimo anacoluto, quando, mentre aspettavo in mezzo alla strada che un ristoratore mi portasse un cartoccio di cibo ordinato al ristorante ma da mangiare a casa, ho ingannato il tempo pubblicando una foto di quel che avevo di fronte. E ho prontamente ricevuto il messaggio indignato d’una lettrice che pretendeva le mie scuse per aver ordinato in un ristorante nel quale a lei non avevano controllato il lasciapassare vaccinaro.
Ho preso in considerazione l’idea di risponderle, ma per dirle cosa?
Che a me, veramente, quando avevo mangiato lì (lì seduta, non lì prendendo roba da portar via) lo avevano chiesto? Che, se invece le risulta non lo controllino, forse dovrebbe chiamare i gendarmi con i pennacchi, invece di scrivere a una carneade su Instagram? Che tanto moriremo tutti? Che poco più in là c’è un posto con un cartello «noi non vi chiediamo il greenpass» che ha solo tavolini fuori e all’interno un bancone, e ci credo che non lo controllano, al bancone non è obbligatorio, fanno i libertari essendo esentati, tutti anarchici coi trucchetti da due lire, e loro sì che li denuncerei, ma per truffa e falso pubblicitario? Che il business del futuro non sono i vaccini, come credono i picchiatelli, ma i service privati per fare tamponi alle cene, che i miei amici ricchi che si ostinano a organizzare cene prenatalizie utilizzano con gran voluttà?
Non le ho risposto, perché mi sembra che l’isteria verso chi andava a correre quando bisognava stare in casa si sia spostata sui ristoratori che non vigilano sui lasciapassare, e l’isteria da qualche parte deve pur sfogarsi, sennò ne moriamo. È per quello che abbiamo inventato i social: per fare da sfogatoio alle opposte isterie. È per quello che il mio amico è così offeso ch’io oggi non sia a pranzo con quindici estranei: perché non si è mai aperto un Instagram.