Voltare paginaI tre libri che spiegano come sarà il futuro del lavoro

La pandemia ha evidenziato i limiti della vita d’ufficio e ha posto le basi per un approccio più flessibile. Questo però implica un ripensamento generale, non privo di difficoltà e di false promesse. Che fare? Due saggi e un romanzo satirico aiutano a districarsi

di Damir Spanic, da Unsplash

Uno degli effetti imprevisti della pandemia e delle restrizioni che l’hanno accompagnata è la riconsiderazione globale delle giornate lavorative. I ritmi sono stati stravolti, le abitudini cancellate e la chiusura temporanea degli uffici ha imposto sia adattamento che una certa creatività. Alcuni hanno rivisto gli orari, modificandoli anche in base alle esigenze familiari. In Cina il movimento tang ping invoca uno stile di vita più lento, negli Stati Uniti si assiste al fenomeno della cosiddetta Big Resignation: persone che si licenziano in cerca di paghe migliori o di condizioni più rilassate. Chi può, addirittura, per togliersi del tutto dal mercato del lavoro.

Come ricorda questo interessante articolo di Emma Jacobs pubblicato dal Financial Times, i problemi scoperchiati dalla pandemia erano di lunga data. E i cambiamenti, come in altri settori, sono stati accelerati. Questo, per i lavoratori ha implicazioni positive e negative: come ha rilevato anche un report di McKinsey, la direzione verso l’automazione è ancora più decisa. Da un lato questo porta a una liberazione dai compiti più ripetitivi e routinari, ma può anche provocare la perdita del posto.

Al tempo stesso, lo sconvolgimento pandemico può portare a nuove forme organizzative del lavoro e dell’ufficio. In questo senso ci sono libri che possono fornire un’analisi e una serie di consigli utili.

Uno è “Out of Office”, di Charlie Warzel e Anne Helen Petersen, edito da Scribe (disponibile dal 30 dicembre). Secondo loro è tempo di dire addio alle vecchie formule, serve anzi che «ci liberiamo dagli aspetti del lavoro d’ufficio più tossici, alienanti e frustranti. Non soltanto cambiando il luogo dove vengono svolte le mansioni lavorative, ma anche ripensando il lavoro che facciamo e il tempo che gli dedichiamo». In poche parole, deve smettere di essere «il fattore organizzativo principale intorno cui fare girare le nostre vite».

Facile da dirsi, meno a farsi. La svolta, più che personale, è sociale: il lavoro non deve più essere, per forza, il carattere identitario principale di un individuo. È una presa di posizione contro tante cose, ma in particolare la mitologia della start-up e la retorica delle lunghe ore in ufficio, anche a discapito di una vita sociale più sana. Come questo possa avvenire con il lavoro da remoto è il punto centrale della loro tesi: da un lato, concedono, può servire del tempo in ufficio. La componente ibrida può funzionare, non solo come periodo di transizione. Dall’altro, ammettono, lavorare da casa (o da dove si vuole) non è per forza una panacea. È una policy che andrebbe concordata con il datore di lavoro, anche per evitare posizioni troppo rigide (ad esempio la legge francese che proibisce l’invio di e-mail fuori dall’orario lavorativo) che danneggiano la libertà d’azione del lavoratore.

Esagerare con la connessione, tuttavia, è un rischio ben delineato in “Several People Are Typing”, di Calvin Kasulke (Hodder & Stoughton). Una commedia nera sui tic e le abitudini della vita in ufficio e online: per un evento straordinario, la coscienza del protagonista Gerald, un capo delle PR di un’azienda di New York, finisce su Slack, mentre il corpo rimane accasciato in casa. Gli effetti e i malintesi sono comici: i colleghi cominciano a pensare che Gerald non voglia più tornare in ufficio, mentre i suoi superiori sono felici perché lo vedono connesso 24 ore su 24, aumentando in modo esponenziale la sua produttività.

È una satira su tante cose, ma soprattutto sul Larping (Live Action Role Playing), fenomeno legato al mondo delle chat lavorative e ben descritto da Warzel e Petersen. Su Slack (la chat per eccellenza) si partecipa per comunicare, fare battute e soprattutto dimostrare il proprio impegno e la propria dedizione, spesso esagerandola. È un gioco di ruolo, ma non in carne e ossa, che può avere effetti imprevisti e non per forza piacevoli.

Per questo motivo il terzo libro proposto dal Financial Times cerca, invece, di prendere un respiro più ampio e va a indagare la storia stessa del lavoro. “The Story of Work , di Jan Lucassen (Yale University Press) è un’opera ambiziosa, considera le attività umane dalla preistoria fino ai giorni nostri, a tutte le latitudini. E proprio questo punto di vista totale permette di cogliere, con nettezza, il cambiamento in atto. Con la pandemia le persone stanno tornando a un modello di lavoro individualizzato, che si adegui ai propri ritmi e priorità. L’epoca della grande omogeneità, in cui decine di migliaia di persone (e poi milioni) facevano le stesse cose nello stesso modo e nello stesso tempo è stata una grande novità nella storia dell’uomo. E forse oggi comincia a vedere il suo tramonto.