Ieri mattina, quando è arrivata la notizia della sua morte, stavo pensando a Lina Wertmüller, anche se non lo sapevo. Stavo guardando le nuove puntate del nuovo “Sex and the City”, quello che non è come mi aspettavo, quello che somiglia a noialtre del Novecento: che non lo vogliamo dire, che questo è proprio un secolo ridicolo, ma si vede che lo pensiamo. Stavo pensando: beate noi.
Beata Lina Wertmüller, che ha avuto più o meno l’età che ho io adesso in anni in cui poteva far prendere per i capelli l’odiata industriale dal marinaio rabbioso senza venire accusata di rappresentare un modello negativo di dialettica tra i sessi, che poteva farle dare della bottana socialdemocratica senza finire travolta dal femminismo instagrammatico che l’accusa d’usare un linguaggio che non permette alle donne d’emanciparsi. Cioè: senza che andasse come andrebbe oggi.
Tempo fa Lena Dunham aveva messo su una newsletter, faceva fare editoriali e interviste a trentenni emancipate del mondo dello spettacolo americano. Insomma: a una versione del nostro femminismo da Instagram, ma con commercialisti più indaffarati.
A intervistare Lina Wertmüller mandò una regista, nata nel 1985, l’incipit del cui articolo, mi viene da piangere mentre lo trascrivo, è questo: «Ho studiato teoria filmica alla triennale e poi nel mio corso di specializzazione. Scrivo e dirigo film. Mi piace anche pensare che ne so molto di, nello specifico, cinema europeo degli anni Settanta. Ma non avevo mai sentito il nome della prolifica signora del cinema italiano, l’icona nominata all’Oscar Lina Wertmüller, finché non mi hanno chiesto d’intervistarla».
La seconda cosa cui penso leggendo quest’incipit è: la generazione nun-sape-mai-nu-cazz’ non si smentisce mai. La prima cosa cui penso è la ragazza protagonista di “Un giorno di pioggia a New York”, la studentessa di cinema che Woody Allen manda da un regista a dirgli «ho una passione per il cinema europeo, specialmente Kurosawa». Chissà se Woody leggeva la newsletter di Lena.
La seconda domanda che quell’augusta rappresentante di quella derelitta generazione (che non è la peggiore di tutti i tempi perché la peggiore di tutti i tempi è la mia, che ha prodotto ventenni e trentenni che hanno enciclopedie d’ogni settore in tasca e tuttavia resistono con ogni forza alla possibilità d’emanciparsi dal non sapere un cazzo), la seconda domanda che la tapina trentaequalcosenne fa alla Wertmüller fa così: «Tu non giudichi i tuoi personaggi, sono esseri umani imperfetti. Ho provato a farlo anch’io, ma mi sembra che si venga messe in stato d’accusa se si rappresentano personaggi femminili negativi, mi sembra che in quanto regista donna IO DEBBA sempre far fare bella figura alle donne». Maiuscole nell’originale. Non è dato sapere se Wertmüller avesse pensato «ma chi m’avete mandato, ma per forza poi fate dei film inutili», ma le rispose che era una regista, mica «una regista donna».
La tapina, sentendosi probabilmente coraggiosissima, le diceva che in effetti per lei – lei la tapina – rappresentare donne che sbagliano era un gesto femminista, ma invece come la facevano sentire (come facevano sentire lei Wertmüller) le accuse d’antifemminismo? W rispondeva che a lei del femminismo non fregava niente. (Lo dico sempre che le interviste migliori sono quelle con domande imbecilli). Che invidia: «Del femminismo non me ne frega niente» è una frase che possono dire quelle della generazione che ha fatto i fatti, invece di perder tempo con gli slogan.
Guardavo il nuovo “Sex and the City” in cui Miranda si copre di ridicolo cercando di far capire in tutti i modi a una docente universitaria nera che lei non è affatto razzista, anzi si è iscritta al suo corso proprio perché è nera, no cioè volevo dire, e più smaniava a giustificarsi e più quella alzava il sopracciglio, «Si è iscritta perché sono nera?», e più io pensavo a “Scappa”, il film di quattro anni fa in cui il suocero bianco usa come significante d’antirazzismo «Se si fosse potuto, avrei votato per Obama una terza volta», e poi è un mostro che i ragazzi neri in effetti li uccide, acciocché il messaggio sia che se ci tieni troppo a far sapere che non sei razzista sei come minimo del Ku Klux Klan; e se cerchi di dire le cose giuste ti tirano le pietre, se dici quelle sbagliate ti tirano le pietre, poi per forza parliamo del tempo (che inverno freddo).
Guardavo il nuovo “Sex and the City” (che è su Sky in contemporanea con l’America, mentre “Scappa” si trova su varie piattaforme e “Travolti da un insolito destino” su nessuna, acciocché i giovani d’oggi non si turbino a sentire Giannini dare della bottana industriale alla Melato); lo guardavo e pensavo che a parte Charlotte – che è la solita imbecille e l’amica da incubo che crea problemi invece di risolverli, l’amica che tutte le donne sensate temono di essere e le altre disinvoltamente sono – sono tutte cresciute. Si trovano tutte in un secolo in cui la gente ha pretese assurde – che una ascolti i podcast, che specifichi quaranta volte che non voleva offenderti per ogni parola usata, che si ricordi perché qualcuno le ha messo il muso anni fa – e non è il loro secolo, ma non è per questo che sembra imbecille: è che è un secolo imbecille in un modo speciale.
A un certo punto delle riprese di questo “Sex and the City” senile è arrivata la notizia della morte dell’attore che fa Stanford, che nelle prime puntate è presentissimo, e io guardavo le puntate e pensavo tantissimo alla morte, che è una cosa che succede con l’età (morire, ma soprattutto pensarci: «È andata un po’ tanto in fretta, cazzo», scriveva Martin Amis nella “Vedova incinta”), e sullo schermo moriva un personaggio, e io sfogliavo un prontuario di “Sex and the City” che uscì nel 2002 e «the men», gli uomini della serie, sono tutti accorpati in un unico capitolo, c’è Stanford e c’è Big e ci sono tutti, è vent’anni fa e sono tutti vivi, e poi non rimase nessuno.
E intanto moriva Lina Wertmüller e non trovavo il dvd in cui sì, Gennarino Carunchio che ti maltratta è divertente da naufraga, ma alla fine torni col marito ricco perché ti piace scopare con gli stronzi ma mica far la vita da proletaria, e sospiravo «Pensa oggi», e pensavo meno male che è morta, Lina, pensa se finiva a dover fare i giri di parole e dover chieder scusa ogni due per tre come le povere adulte di “Sex and the City”, e pensavo al mio cardiologo, che mi dice «Lei ha un’obesità di tipo 1» e poi, terrorizzato, s’affretta a specificare «è un termine medico, non un insulto», e pensavo che non quanto la Wertmüller ma un po’ sono stata fortunata anch’io: la fortuna d’aver vissuto prima di adesso, di questo tempo fragile, di questa scemenza collettiva.