Il Donbass a casa nostraNel processo Markiv la stampa italiana ha dato voce alla propaganda di Putin

Per i giornali era un colpevole perfetto. Anche perché si inseriva benissimo nella narrazione più amata dal Cremlino, che rovescia la storia e rappresenta l’invasione dell’Ucraina come una reazione a un Paese sempre più russofobo e nazista

Marco Alpozzi/LaPresse

Per una di quelle combinazioni che facevano dire a Sciascia che le sole cose sicure di questo mondo sono le coincidenze, la vicenda processuale di Vitaly Markiv si è conclusa, con la definitiva assoluzione dell’imputato, negli stessi giorni in cui sull’Ucraina sono tornate a concentrarsi le minacce del Cremlino e sulle cancellerie europee i caldi inviti a riconoscere il diritto di Mosca a una sovranità condizionata di Kiev, come alternativa preferibile a una nuova guerra dentro i confini dell’Europa.

Il processo Markiv, infatti, oltre ad avere rappresentato un caso da manuale tutt’altro che minore, anche se poco conosciuto dell’inquisizione giornalistico-giudiziaria di stampo “democratico”, è stato a tutti gli effetti un pezzo di guerra del Donbass combattuta in Italia. Una guerra ibrida e irregolare, come tutte quelle – dichiarate e non dichiarate – con cui il Cremlino dissemina i confini del suo spazio vitale post-sovietico.

Il processo al “fascista ucraino” che avrebbe ucciso il fotoreporter Andy Rocchelli e addirittura rivendicato il delitto in un’intervista, è stato insieme il prodotto e il paradigma di quel rovesciamento della storia post-Maidan, che ha portato l’Ucraina e gli ucraini a doversi difendere non solo dall’invasione russa, ma anche dall’accusa di averla suscitata come legittima reazione a un pericolo portato alla stabilità dell’area da un nazionalismo russofobo e cripto-hitleriano.

La versatilità con cui Vladimir Putin rifornisce di quattrini e verità alternative l’intera galassia sovranista europea e con cui, nello stesso tempo, insorge contro il presunto pericolo fascista ai confini della Russia dovrebbe rappresentare una ragione di diffidenza e di sospetto per chiunque non appartenga ai suoi devoti manutengoli.

Invece in Italia è stato spettacolare come il pregiudizio anti-ucraino fomentato dalla propaganda russa abbia immediatamente attecchito anche nelle file di quella sinistra politico-intellettuale, che non appartiene certo ai sodali prezzolati del Cremlino e che però non ha mancato di condannare subito Markiv come responsabile del delitto e di montare attorno a una sciagura purtroppo frequente negli scenari di guerra – la morte di un cronista sulla linea del fronte – un caso ripugnante di “giornalisticidio” volontario, per trasferirlo tale e quale nelle aule giudiziarie.

A spingere alcune dei nomi più in vista della sinistra giornalistica e la stessa FNSI a schierarsi per la condanna di Markiv, screditando chiunque sollevasse dubbi sul teorema accusatorio, è certo stata l’amicizia di molti di loro per Andy Rocchelli. Ma che l’abbiano fatto – e l’abbiano fatto così, cioè pescando dal mazzo dei possibili colpevoli quello “perfetto”, perché ucraino, ma anche italiano e dunque facilmente arrestabile in Italia e amico di molti giornalisti italiani che raccontavano il conflitto e dunque loro spregevole traditore – non si spiega con l’amicizia per il morto, ma solo con l’inimicizia e l’odio politico per il vivo e per tutto quello che rappresentava.

Anche il modo in cui la giustizia italiana ha trattato questo intreccio mostruoso di fatti e pregiudizi, ricombinati in un plot con morale politica incorporata, è stato a rimorchio della verità indiscutibile della colpa ucraina per la morte di Andy Rocchelli.

Alla fine a Markiv, condannato in primo grado con una sentenza che lo iscriveva tra gli «insorti ucraini» e che addebitava il conflitto in Donbass alla «dichiarazione di indipendenza ucraina” (a proposito di lapsus rivelatori) e in seguito assolto in appello con una sentenza, le cui motivazioni quando vennero pubblicate apparvero però suicide, è stato assolto definitivamente in Cassazione la settimana scorsa. Gli è stata risparmiata la condanna e la galera, ma non gli è stata restituita l’innocenza che, come “fascista ucraino”, non può meritare e quindi rimarrà per l’informazione che conta un assassino che l’ha fatta franca.

L’impossibile innocenza di Markiv è l’altra faccia della impossibile verità sulla causa del conflitto russo-ucraino, in cui la vocazione europeista e occidentalista di Kiev è stata in Italia prima rigettata come un impiccio e poi ripudiata come un imbroglio, con un pregiudizio divenuto ormai a tutti gli effetti senso comune.

Non per caso non si è trovato un solo partito disposto a denunciare la mostruosità della costruzione accusatoria, a parte i Radicali, che organizzarono prima del processo di appello una drammatica conferenza stampa con l’avvocato di Markiv, Raffaele Della Valle e il Presidente dell’Unione delle camere penali, Giandomenico Caiazza. E non è esistito un solo giornale di grido, tra quelli dediti al garantismo a geometria variabile, così diffuso in Italia, né una sola grande firma (solo alcune piccole e per questo ancora più meritevoli) ad avere posato lo sguardo su questo caso di agghiacciante ibridazione tra la macelleria mediatico-giudiziaria italiana e il mainstream anti-ucraino di derivazione moscovita.

Si potrebbe dire che in fondo, però, tutto è bene quel che finisce bene. Markiv è stato assolto, è tornato in Ucraina, ha passato “solo” tre anni ingiustamente in galera e pochi si ricorderanno di questo incidente. Ma è una visione ottimistica rispetto al rischio che simili incidenti siano destinati a ripetersi e sull’ombra lunga che la propaganda di Mosca proietta nella politica e nell’informazione italiana.

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