La grande città di Isfahan, in Iran, sin dal 9 novembre scorso è scossa da grandi proteste. Ha un passato glorioso, tanto che fu capitale della Persia, quando venne munita di una piazza tra le più belle e grandi al mondo, oggi patrimonio dell’Unesco. Ma soprattutto ha un presente importante: è la terza città più grande del Paese, uno dei suoi centri nevralgici, e conta quasi due milioni di abitanti.
Le proteste sono scoppiate per un motivo che potrebbe sembrare secondario: il fiume Zayandeh Rud, che attraversa la città, è di nuovo a secco. Non è un fiume a caso, ma il più importante di tutto l’Altopiano iranico, e da esso dipende l’approvvigionamento idrico di milioni di cittadini. I canali che distribuiscono l’acqua anche nei quartieri più periferici risalgono al Settecento. Eppure il fiume, da diversi anni, non fa che diminuire la sua portata e allungare i periodi di secca.
Scrive Cecilia Sala, giornalista che di quella parte del mondo ha scritto spesso, che a Isfahan sono scese in piazza «quasi un milione di persone». E che il problema degli abitanti di Isfahan, come di molti iraniani, «è che hanno finito l’acqua». A scendere in piazza per primi con dei sit-in del tutto pacifici sono stati i contadini e gli agricoltori, con – scrive sempre Sala – «obiettivi limitati e richieste specifiche: riaprite i rubinetti, ridateci il fiume Zayandeh Rud ormai prosciugato». Ma in pochi giorni, di fatto, il malcontento si è trasformato in qualcosa di più, in una protesta contro il regime degli ayatollah. Gli arrestati, definiti «agitatori che stavano dietro alle proteste», sarebbero centinaia.
La situazione, dopo pochi giorni dall’inizio delle proteste, è degenerata. La polizia ha sparato non solo gas lacrimogeni, ma anche fucilate, e durante la notte ha appiccato di proposito degli incendi alla distesa di tende in cui i manifestanti sarebbero andati a dormire poco dopo.
Un dettaglio significativo è che non si protesta in piazza: i manifestanti, a migliaia, si sono riuniti proprio sul letto del fiume ormai secco. In questo modo sono riusciti ad attirare l’attenzione lì dove sta il problema di milioni di iraniani: la siccità. Le autorità si giustificano dicendo che la colpa, la causa della siccità, è del riscaldamento globale. Chi protesta non lo nega, ma ribatte che è anche una questione di mala gestione del sistema idrico. Le acque dello Zayandeh Rud, infatti, non sono evaporate ma sarebbero dirottate verso una città molto vicina, Yazd.
Il rischio, se l’acqua è poca, è che intervenire in modo impreciso sulla distribuzione non faccia che peggiorare il malessere popolare. Ed ecco che, stando a quanto riporta un’agenzia di stampa iraniana, i manifestanti si sarebbero procurati dei bulldozer per tentare di distruggere parte delle tubature che portano l’acqua dalla provincia di Isfahan verso Yazd. Sono reazioni, per quanto violente, a una mancanza: un po’ come quando, un secolo fa, in Unione sovietica si decise il razionamento delle scorte durante il cosiddetto «comunismo di guerra».
La siccità, in un territorio come quello iraniano, non è una novità. Ma negli ultimi anni la frequenza è aumentata in modo significativo. Secondo l’Organizzazione meteorologica dell’Iran le stime più attendibili mostrano che addirittura il 97% del paese stia affrontando, più o meno gravemente, un certo grado di siccità.
L’acqua è una materia prima che, se manca, fa mancare tutto il resto. Non solo il cibo, perché i campi non si possono irrigare (e, da qui, le proteste degli agricoltori) ma anche l’energia. Quella del 2021, che in Iran sarebbe la peggiore siccità degli ultimi 50 anni, ha anche messo in crisi il sistema idroelettrico.
La siccità colpisce l’Iran soprattutto a ovest, verso il confine con l’Iraq, dove migliaia di ettari un tempo fertili oggi a causa della scarsità delle piogge sono aridi, e in larga parte già semi-desertici. Per questo è da ovest che la scorsa estate sono cominciate le proteste, in tutto simili a quelle scoppiate nella città di Isfahan. Infatti è nel Khuzestan che lo scorso luglio i primi manifestanti si sono scontrati con le forze dell’ordine, trovando la morte a decine. D’altronde il nuovo presidente della Repubblica islamica è Raisi, un conservatore noto per essere stato a capo della magistratura durante le esecuzioni di massa degli anni Ottanta.
In Iran piove meno di un tempo, la siccità è anche causata dal riscaldamento climatico e l’avanzare della desertificazione di alcune aree, ma le responsabilità del governo di Teheran, in ogni caso, ci sono. Uno studio pubblicato recentemente su Nature spiega come la siccità e la mancanza d’acqua nelle città iraniane siano anche una conseguenza diretta di alcune scelte politiche.
Le autorità hanno infatti puntato sull’autosufficienza alimentare, con tutta probabilità per far fronte alle sanzioni internazionali che colpiscono il paese, e per farlo hanno dirottato quasi tutta l’acqua di cui dispone il paese nell’agricoltura, circa il 90%. Hanno anche costruito moltissime dighe che diminuiscono la portata dei fiumi: oggi le dighe nel paese sono 192, ben dieci volte quelle che si contavano negli anni Novanta. Il problema è che, come è evidente, l’acqua non basta né per i contadini né per i centri urbani.
Non è la prima volta che una protesta di massa contro un governo in carica o le autorità nasce dalla siccità, ma ciò che il cambiamento climatico sembra poter fare è accelerare questi processi e renderli più violenti, esasperando la popolazione locale, soprattutto in zone in cui l’acqua è sempre stato un bene prezioso, come il Medio oriente e l’Asia centrale. Poi di queste cause scatenanti, sistematicamente, ce ne dimentichiamo: perché crediamo che a fare la storia siano le idee e non le condizioni materiali, ma sbagliamo. Già in Afghanistan – paese che confina con l’Iran – la recente ascesa dei talebani, quella che li ha riportati al potere lo scorso inizio settembre, sarebbe stata causata anche dalla siccità.